Direttore: Alessandro Plateroti

Non è sempre facile “entrare” nella testa degli analisti e dei mercati.

Le dichiarazioni di Powell al termine della riunione del Fomc, il Comitato di politica monetaria della FED, sono state sostanzialmente in linea con le aspettative, che prevedevano un primo rialzo dei tassi a marzo, in concomitanza con la fine degli acquisti di bond da parte della Banca Centrale. Nella conferenza stampa è stato confermato che l’inflazione rimane molto al di sopra della “soglia di tranquillità” del 2%, anche se si stima che il superamento dei “colli di bottiglia” sulle forniture, in primis relativi alle materie prime, possa contribuire a favorire un ritorno a livelli meno preoccupanti. Al momento non è stato fatto alcun annuncio relativamente all’ipotesi di una riduzione del bilancio della Federal Reserve, il fattore che più preoccupava gli investitori.

Eppure, proprio nei minuti in cui veniva fatto l’annuncio, Wall Street, fino a quel momento ampiamente positiva, con il Nasdad in rialzo di oltre 2 punti percentuali, ha drasticamente invertito la rotta, chiudendo addirittura in negativo: si è parzialmente salvato il listino tecnologico, appena sopra la parità, mentre il Dow Jones ha lasciato sul terreno lo 0,38%.

Quello che può aver “disturbato” è la mancanza di precisazioni sull’entità della manovra (anche se si ipotizza una stretta dello 0,25%) e probabilmente anche la conferma (indiretta, peraltro, vista la “latitanza” di maggiori informazioni anche su questo punto) che i rialzi dovrebbero essere 4 durante l’anno in corso.

Crescono, quindi, le incertezze degli investitori e con queste il dilemma se ci troviamo di fronte ad un normale (anche se importante) assestamento oppure all’inizio di una fase di caduta.

Alcune narrazioni ci possono venire in soccorso.

La prima, forse, è quella che potrebbe dare le risposte più evidenti. Se guardiamo al passato, notiamo che nei precedenti 12 cicli di rialzo messi in atto dalla FED dagli anni 50 ad oggi, ben 11 sono stati accompagnati da un rialzo dei mercati, con punte del 24,5% in un anno nel 1958-1959. Nell’ultimo, quello relativo al periodo 2015-18, il rialzo è stato pari all’8,4% annuo. Solo 1 volta abbiamo assistito ad un mercato “orso”, e quindi in caduta: tra il 1972 e il 1974 il listino USA perse mediamente l’8,6% all’anno. Questa analisi dovrebbe essere la conferma che ciò che maggiormente preoccupa non è il rialzo dei tassi (che, indirettamente, in fondo è la conferma che l’economia “sta bene” e che le aziende, di conseguenza, fanno “incetta” di utili), ma l’incertezza.

Altri, peraltro, questa volta meno statistici, sono gli indicatori che fanno propendere per una fase di storno.

Uno dei più importanti arriva da JP Morgan. In un report che viene mensilmente stilato dalla banca americana, reso noto al 20 gennaio, si evidenzia che per ora, da parte degli investitori, non c’è fuga dal rischio. Ad oggi, osservando il posizionamento dei fondi e dei grandi investitori si osserva che il loro posizionamento è pressochè identico a quello di inizio anno, con asset class (liquidità, bond, equity) rimaste invariate. Così non è stato, per esempio, nel 2018, quando si verificò l’ultima grande caduta dei listini. Non va dimenticato, come già altre volte ricordato, infatti, che ci troviamo ancora con tassi reali profondamente negativi: in sostanza, gli investitori sanno che, puntando su bond, o anche tenendo il denaro in cash, realizzerebbero delle perdite, elemento che li “costringe” a pensare ad altre alternative, anche se più rischiose.

Oltre a ciò, negli USA sta venendo a mancare il “supporto” dei piccoli investitori. Si sa che i risparmiatori americani amano “giocare in borsa” (ricordiamo ancora, per esempio, il caso di Gamestop, società quasi fallita che, paradossalmente, ha avuto un rialzo in borsa che ha toccato i 3 zeri proprio per il superattivismo di micro-risparmiatori), salvo “ritirarsi” nei momenti difficili. Per non parlare, poi, del buyback, l’acquisto di titoli propri da parte delle società. Siamo, in USA, nella fase in cui vengono chiuse le trimestrali, momento in cui il riacquisto di titoli propri viene meno. Il fenomeno “buyback” è determinante per sostenere i listini, per cui la sua “assenza” si nota immediatamente.

Mettiamoci, infine, gli algoritmi, vale a dire i sistemi di vendite automatiche  che scattano quando i prezzi delle azioni toccano determinati livelli al ribasso. Con la volatilità estrema di questi giorni, quasi certamente più volte sono entrati in gioco, provocando ulteriori discese.

Certamente potrebbero entrare in gioco altri fattori.

Il più critico sarebbe l’entrata in crisi dell’economia (e quindi l’arrivo della stagflazione, cioè decrescita che si accompagna ad un’alta inflazione, un po’ lo scenario degli anni 70), ma non dobbiamo dimenticare la perversione che può derivare agli eccessi di automatismo del mercato (gli algoritmi di cui si parlava prima), con il risultato che quello che dovrebbe “aiutare” a difendere il valore degli investimenti diventa, invece, un elemento di accelerazione del fenomeno.

Rimane il tema del prezzo dei prodotti energetici, forse l’aspetto che più preoccupa nel breve e che ci riporta agli anni 70 a cui abbiamo fatto cenno prima: anche allora abbiamo assistito ad un’inflazione da offerta e non da domanda. Un tipo di inflazione più difficile da controllare , in quanto non dipende dalle abitudini delle persone (predisposizione ai consumi che deriva dal benessere e dall’aumento dei salari), ma dalle difficoltà produttive e che derivano dalla loro distribuzione, che fatica ad arrivare alla “catena produttiva” composta dalle aziende.

La giornata odierna si preannuncia difficile.

In scia al dietro-front di Wall Street di ieri sera, come prevedibile tutti i listini asiatici denunciano un “profondo rosso”. Il Nikkei chiude vicino ai minimi di giornata (– 3,11%), Shanghai arretra dell’1,78%, mentre Hong Kong è a – 2,1%, e cerca faticosamente un recupero rispetto al – 3% di poco fa.

I futures USA, che nelle primissime ore della giornata “grondavano sangue”, con perdite vicine al 2%, stanno dando segnali di ripresa, riportandosi a livelli meno pesanti (Dow – 0,7%, Nasdaq – 1,1%).

In rosso, al momento, anche quelli europei.

Non da segni di nervosismo il petrolio: questa mattina lo troviamo a $ 87 (WTI), in calo di un modesto 0,3%.

Sale il gas naturale, + 0,89% a $ 4,082.

Oro – 1,13% a $ 1.810.

Spread oramai prossimo a 150 bp: il nulla di fatto per il Quirinale, anche se nella notte si potrebbe essere arrivati ad un accordo su una “short list” di nomi, accende la speculazione (oltre ad aumentare le preoccupazioni). Rendimento del BTP a 1,40%. Sale anche il rendimento del treasury, che tocca l’1,85% sulla debolezza del decennale.

Le parole di Powell hanno messo il turboal $, che si porta sotto l’1,12 vso € (1.1197).

Cede terreno il bitcoin, che torna verso i $ 36.000 (- 3,85%).

Ps: nel 2021 il traffico aereo passeggeri, in Italia, ha avuto un calo di oltre il 58% rispetto all’anno che ha preceduto la pandemia: ben 113ML di passeggeri in meno, con soli 80ML di viaggiatori e un traffico aereo sceso del 42,4% (950.000 atterraggi e decolli). Ha invece recuperato totalmente il traffico merci, tornato sui livelli pre-covid. Se il  mondo non si è fermato, di certo fa fatica a muoversi….

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ultimo aggiornamento: 27-01-2022


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