Direttore: Alessandro Plateroti

Cervantes era solito dire che “nella bocca chiusa non entrano le mosche”: meglio il silenzio, o affidarsi a poche ma chiare parole, quando non si ha nulla da dire se non le solite banalità o cose già note.

Una lezione che Powell, il Presidente della FED, ha appreso sulla propria pelle dopo che 1 anno fa, sempre sulle montagne del Wyoming, aveva dato l’inflazione per “temporanea”. Nella usuale conferenza tenuta venerdì a margine del simposio di Jakson Hole, ha tracciato un quadro esattamente opposto a quello di 12 mesi fa, confermando la volontà della Banca Centrale americana di un ulteriore inasprimento dei tassi, con le previsioni che si spingono a stimare il “punto di arrivo” addirittura al 4% per fine anno. Diventa, quindi, molto probabile un nuovo rialzo, nella prossima riunione del Comitato Direttivo del 20/21 settembre, dello 0,75%: sarebbe il terzo di fila con queste percentuali, riportando la memoria ai primi anni 80, quando l’allora Presidente FED Paul Volcker adottò una politica ancora più rigorosa, portando i tassi ben oltre le due cifre.

Una soluzione, ha detto Powell, “ineluttabile”, necessaria per bloccare un’inflazione che, per quanto, almeno negli USA, pare sia ormai arrivata al picco, rimane sempre a livelli ritenuti insostenibili (8,5% a fine luglio vso il 9,1% di fine giugno).

Il Presidente FED è ben consapevole, peraltro, di come le stringenti misure porteranno difficoltà per le famiglie e per il mondo delle imprese: ma, per quanto pesanti e dolorosi, i costi dovrebbero essere, alla fine, meno pronunciati di quelli che avremmo nel caso in cui l’inflazione persistesse su questi livelli. Ecco perché, secondo Powell, non è sufficiente il miglioramento fatto registrare a luglio per decretare che il pericolo sia scampato.

Il nuovo “abito” da “falco” del Presidente FED ha colto di sorpresa, venerdì, i mercati, che non si aspettavano parole così allarmate. La preoccupazione è che i prossimi mesi possano veramente portare ad una recessione, per quanto “pilotata”: non va dimenticato che, almeno per il momento, un po’ tutti gli indicatori economici USA (se si esclude, ovviamente, l’inflazione) rimangono positivi, con la disoccupazione praticamente ai minimi storici, un PIL che, per quanto in diminuzione, come, peraltro, in tutto il resto del mondo, rispetto all’anno precedente, non evidenzia una “recessione tecnica” (che si verifica quando si hanno 2 trimestri di fila negativi), utili aziendali che, nel secondo trimestre, hanno fatto registrare nuovi massimi. Si intravedono, qua e là, alcuni segnali negativi (vedi la diminuzione della vendita di case), ma non così gravi. Ecco il motivo della pessima reazione, venerdì, dei mercati, che probabilmente, alla luce del miglioramento dei dati sull’inflazione del mese di luglio, non si aspettavano una “presa d’atto” così drastica. La speranza è che, essendo i mercati finanziari “anticipatori” delle fasi economiche, dopo la caduta di venerdì (e la probabile debolezza di periodo), “vedano” nelle parole della FED la soluzione al problema dell’inflazione e quindi “ragionino” in chiave prospettica, guardando al momento in cui l’economia darà segni di ripresa e quindi, dopo una fase di assestamento, riprendano la loro marcia (non dimentichiamo che comunque, da inizio anno, stanno già “scontando”, con perdite, per quanto ridotte rispetto ai minimi fatti registrare negli scorsi mesi, oltre le 2 cifre, le previsioni di una fase recessiva).

Questo per quanto riguarda gli USA.

E’ probabile che, in considerazione del “benchmark” che la FED rappresenta per le altre Banche Centrali, anche in Europa si faccia sentire l’eco delle parole di Powell, con una BCE più attenta alle prossime mosse, che dovrebbero confermare la “strategia del rigore” (si prevede che i tassi possano raggiungere, per fine anno, la cosidetta “neutralità” rispetto all’inflazione attesa, portandosi quindi al 2/2,5%). Europa che, a differenza degli USA, deve fare i conti con costi dell’energia quasi “fuori controllo”: il gas è arrivato, al mercato di Amsterdam, a toccare venerdì i 327€ per megawattora, per poi assestarsi intorno ai 307€.

Una situazione che, per quanto ci riguarda, di prepotenza fa irruzione nella campagna elettorale, con tutti i partiti che chiedono al Governo (o meglio, a Draghi…) di intervenire con provvedimenti straordinari a favore di famiglie e imprese. Viene naturale porsi un po’ di domande, visto che, nel momento in cui alcuni hanno “staccato la spina”, si era già nel mezzo di una fase critica, e per quanto riguarda l’economia e per quanto riguarda i costi energetici, se è vero che nei mesi precedenti il Governo era stato costretto ad interventi risolutivi. Ci troviamo ora ad affrontare una crisi mai vista prima (anche la crisi energetica degli anni 70, quella delle “domeniche a piedi”, sembra poca cosa rispetto alla attuale) con i partiti impegnati, più che a governare, a lanciare slogan per i futuro, “scaricando”  su chi hanno “scaricato” la responsabilità di prendere decisioni le cui conseguenze ricadranno, in un modo o nell’altro, sui conti dello Stato e/o di famiglie e imprese. Con un Presidente del Consiglio che, per quanto “civil servant”, dimostra un po’ di distacco, quasi a voler schivare il “fuoco amico”. Dando voce quindi alle preoccupazioni di chi (la stragrande maggioranza dei cittadini…..) riteneva folle e dissennata una crisi di Governo in un momento così drammatico da un punto di vista geopolitico e la già difficile congiuntura economica.

La settimana si apre con il tonfo del Nikkei (- 2.66%), che si adegua, più o meno, alla caduta dei mercati occidentali di venerdì. Un po’ meglio va per Hong Kong, che limita le perdite, al momento, allo 0,85%, mentre è in recupero Shanghai, che si porta, seppur frazionalmente, in territorio positivo.

Negativi i futures su tutte le piazze, con cali tra lo 0,6 e l’1,50%.

Petrolio che conferma i prezzi di venerdì, con il WTI a $ 93.53.

Gas naturale USA a $ 9,454 (+ 1,84%).

Oro in calo, a $ 1.727 (- 0,83%).

Spread a 232 bp, per un rendimento del BTP attorno al 3,70%.

Non è da meno il treasury, con il decennale che si porta al 3,12%.

€/$ ancora sotto la parità, a 0,994.

Ancora in calo, per il quinti giorno consecutivo, il bitcoin, che scende sotto quota $ 20.000 (19.859, – 0,94%).

Ps: l’Italia è il Paese delle contraddizioni. Così, sotto certi aspetti, può essere letto il dato sul Risparmio degli italiani. Sappiamo che il debito pubblico, negli ultimi 10 anni, è passato da € 1.700MD a € 2.700 MD. Analogamente, la ricchezza finanziaria (esclusi, quindi, gli immobili) è aumentata a € 5.256 MD, con un incremento di circa il 50%. Le voci più “amate” sono il cash (€ 1.629 MD, + 45%), le azioni (€ 1.251 MD, circa + 100%), Fondi comuni (€ 771MD, con asset più che triplicati), polizze assicurative (€ 1.213 MD, + 74%). Quasi scomparsi, invece, i titoli obbligazionari, scesi a € 233 MD (erano € 712MD 10 anni fa).

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ultimo aggiornamento: 29-08-2022


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