Non deve più di tanto stupire l’offerta del Fondo di Private Equity americano KKR per “conquistare” TIM (peraltro sarebbe il 1° caso di una società “incumbent” – per incumbent si intendono società “ex monopoliste” che, operando oramai comunque su mercati liberalizzati – possono ancora trarre beneficio da una posizione di grande vantaggio iniziale – controllata da un Fondo di Private Equity). In un lungo CdA che si è svolto ieri, come noto, l’AD Gubitosi ha presentato l’offerta del Fondo americano, che è arrivato ad offrire € 0,505 per azione, cioè circa il 46% dei valori di borsa di venerdì (ma il + 54% rispetto al valore medio dell’ultimo mese), valorizzando € 11MD l’azienda (che però ha “in pancia” debiti per € 35MD circa, una cifra probabilmente insostenibile per una qualsiasi azienda “normale”).
L’offerta, si diceva, non deve stupire più di tanto per diversi motivi.
Il 1°, più evidente, è che mai Telecom TIM aveva toccato un valore così basso (si pensi che 13 anni fa, all’epoca dell’intervento di Telefonica, l’omologa società spagnola, il titolo Telecom valeva € 2,4 circa). Dettaglio fondamentale per un Fondo.
In secondo luogo, mai abbiamo assistito alla presenza di una massa monetaria così enorme a tassi così bassi: ormai, si sa, la grandi parte degli osservatori (e degli investitori) ritiene che queste particolari (e favorevoli) condizioni di mercato stiano per finire, per cui il mondo del Private Equity, tra i maggiori beneficiari della situazione, è in gran fermento.
In terzo luogo, si sta parlando di un settore strategico come quello delle telecomunicazioni, fondamentale per lo sviluppo e la crescita di qualsiasi economia, per non parlare dei risvolti sulla sicurezza dei singoli Paesi (tutte le informazioni “sensibili” transitano e sono “archiviate” in rete).
E poi non va dimenticata la particolare fase in cui ci troviamo (certamente non solo l’Italia, ma un po’ tutta l’Europa), visti gli enormi aiuti che la Commissione Europea ha messo a disposizione con il Recovery Plan – Next Generation EU da € 750 MD, di cui € 220 MD “pioveranno” sul nostro Paese (sempre che riusciamo a tramutare in piani concreti i progetti già varati), soprattutto in settori ritenuti strategici ( e le telecomunicazioni, per definizione, rientrano tra questi).
Certamente, aspetto per nulla secondario, la capacità di reazione che il nostro Paese sta dando è un ulteriore “propellente”. I meriti del Presidente Draghi ormai sono evidenti, in primis aver ridato una credibilità internazionale all’Italia: e la conferma è, appunto, il desiderio di investitori esteri (non solo i fondi, ma anche aziende e privati) di tornare ad investire da noi.
Il particolare momento favorevole in cui ci troviamo lo vediamo anche dal fatto che, quasi incredibilmente, l’Italia è diventata, in questa fase, la “locomotiva” d’Europa, almeno per quanto riguarda l’industria, sostituendosi alla Germania, il Paese che nell’immaginario di tutti ha sempre avuto il ruolo guida nel nostro Continente. Infatti, ci confermiamo, relativamente alla manifattura, la 7° potenza al mondo in termini di stock, anche se, come detto, procediamo meglio in questo periodo di Francia e Germania, i cui livelli produttivi, verso la situazione pre-Covid, sono ancora negativi rispettivamente del 5 e del 10%. Noi, invece, abbiamo recuperato tutto il gap, anche se, nell’ultimo periodo, qualche segnale di incertezza, aggravato dalla nuova emergenza sanitaria, comincia a farsi largo. Questa speciale classifica vede al 1° posto la Cina, la cui quota manufatturiera vale il 30,1% del valore globale, seguita dagli USA, con il 16,6%. A seguire Giappone, con il 7,1%, Germania (5,3%), Corea del Sud (3,1%), India (2,8%)e, appunto, Italia, con il 2,2%. A favorire questi numeri è stata anche la minor dipendenza delle aziende italiane, un po’ a sorpresa, dai “colli di bottiglia” che hanno colpito le forniture di materie prime e componentistica: pare, infatti, che solo il 15,4% delle imprese abbia accusato cali produttivi per la scarsità degli approvvigionamenti.
Ancora una giornata all’insegna della disomogeneità per i mercati asiatici: intorno alla parità il Nikkei a Tokyo, mentre Shanghai è in rialzo dello 0,6%. Nuovo calo per la borsa di Hong Kong, che perde circa lo 0,45%, sempre penalizzata dal settore tecnologico. Positiva Seul (+ 1,3%), grazie al forte aumento delle esportazioni, cresciute, in questi primi 20 giorni di novembre, di oltre di oltre il 27,6% rispetto al mese di ottobre.
Futures ovunque positivi, con rialzi saldamente oltre lo 0,20/0,30%.
Materi prime in discesa: petrolio (WTI) sotto i $ 76 (75,93), dopo il brusco calo di venerdì (– 3,65%). Giornata difficile anche per il gas naturale, che perde oltre il 3%, a $ 4,886.
Anche l’oro torna a scendere, dopo i rialzi della settimana scorsa, portandosi a $ 1.846 per oncia (– 0,4%).
Lo spread apre la settimana a 120,2 bp: rendimento del BTP sempre intorno allo 0,95%. Treasury a 1,56%.
€/$ a 1,1272, con il $ che continua la progressione sull’€ sulle aspettative degli interventi di politica monetaria della FED.
Ancora debole il bitcoin, che questa mattina perde circa il 3%, portandosi a $ 57.500 circa.
Ps: si fa presto a parlare di inquinamento. Ma come possiamo renderlo più “tangibile” (a parte avvertire, in alcune giornate, un’aria più difficile da respirare)? Si calcola che, nel 2020, un anno, quindi, molto difficile, con molte industrie ferme per buona parte dell’anno, le emissioni di CO2 siano state pari a 35MD di tonnellate (oltre 10 MD solo per la Cina, con gli USA a 5MD, l’India vicino a 3MD (Italia < 1MD). A livello procapite, però, scopriamo che i principale “contributori” sono i cittadini americani, intorno alle 15 ton, seguiti dai giapponesi, a 8 ton, dai cinesi, con 6 ton. I cittadini indiani si fermano a 2 ton, mentre noi italiani siamo a 5 ton: chi è senza peccato scagli la prima pietra, verrebbe da dire.