La fine dell’anno è ormai prossima. Un anno, il 2022, che “se la gioca” con il 2008, l’anno in cui la Lehman Brothers crollò schiacciata dai debiti, come l’anno peggiore di questo primo scorcio di secolo. Tanti i motivi, talmente noti che è persino superfluo ricordarli. E, come ogni fine anno, arriva il momento in cui si iniziano a “tirare le somme”.
Per quanto riguarda i mercati si sa che sia per gli indici azionari che per quelli obbligazionari le perdite, mediamente, dovrebbero, salvo “miracolosi” recuperi negli ultimi giorni di trattazione, intorno al 10%, peraltro con tutti i distinguo del caso. Ma, ovviamente, avremo modo di tornarci in maniera più precisa.
Sul fronte economico, dopo la forte crescita globale del 2021, l’anno che si chiude ha visto comunque un generale consolidamento del PIL: quasi tutte i Paesi hanno fatto registrare un aumento delle attività certamente inferiore all’anno precedente, ma ben superiore alle previsioni dei mesi scorsi, cogliendo quasi di sorpresa gli analisti. Nonostante la presenza di “deflattori” come la guerra o il massiccio rialzo dei tassi, l’economia ha continuato a “sfornare” numeri piuttosto positivi, al punto di convincere le Banche Centrali che la loro “missione” non è terminata.
E qui comincia il primo guaio. Proprio ieri Klass Knot, Presidente della Banca nazionale olandese (Paese noto per il suo rigore e la sua contrarietà a politiche accomodanti), ha dichiarato che la BCE continuerà a rialzare i tassi in quanto, a suo parere, “il rischio che si faccia troppo poco (per combattere l’inflazione) è ancora il rischio maggiore. Per cui siamo all’inizio del secondo tempo”. Queste le sue parole. A cui hanno fatto seguito quelle del Vice presidente BCE, Louis de Guindos, secondo cui “ci saranno ulteriori, necessari, rialzi dei tassi, fino a quando l’inflazione sarà di nuovo sulla strada per avvicinarsi al 2%, il target prefissato”. Dichiarazioni più che sufficienti a far rialzare ulteriormente il livello dei rendimenti in tutta Europa, deprimendo le quotazioni dei titoli obbligazionari: il bund tedesco, sulla durata 10 anni, ieri ha toccato il 2,52%, un livello che non toccava dal 2011. Mentre il nostro BTP si è attestato al 4,62%, con lo spread a 210 bp.
Chi, tutto sommato, almeno per il momento, non si può lamentare è l’artefice di buona parte dei problemi che stiamo vivendo.
La Russia, per quanto non stia certo attraversando una fase positiva, ha visto la propria economia decrescere solo del 3%, ben lontana dalle attese di una recessione vicina al -10%. Infatti, è ormai provato che le sanzioni produrranno il loro effetto maggiore a partire da quest’anno, soprattutto in considerazione dell’avvio del price cap sul petrolio, che scatterà al superamento della soglia dei $ 60 (si parla del petrolio russo, che, come noto, ha un prezzo ben inferiore a quello del Mar Baltico (brent) e di quello americano (WTI). Da qui la “ripicca” di Putin, che ieri ha firmato il decreto che vieta la vendita di petrolio e dei suoi derivati a quei Paesi che hanno aderito alle sanzioni.
Ne paga le conseguenze anche l’andamento della valuta: il rublo, infatti, che dopo il crollo seguito allo scoppio della guerra e al divieto di transazioni finanziarie, si era ripreso, negli ultimi giorni sta nuovamente accusando il colpo, scendendo ai minimi dal mese di aprile. Un fattore che certo non aiuta l’economia di Mosca, in gran parte basata sull’export dei prodotti energetici. Export che, per forza di cose, sta prendendo altre strade: in primis verso l’India, che, guarda caso, non aderisce al blocco dei prezzi. Vedremo se la “leva” economica sarà un vero deterrente per la situazione bellica: senza le “rendite” dell’energia, infatti, sarà sempre più difficile per Mosca riuscire a sostenere i costi di un’occupazione che sta andando ben oltre le attese (ricordiamo che, secondo l’intelligence russa, la “presa dell’Ucraina” sarebbe avvenuta in circa 96 ore….), oltre che giustificare le migliaia di morti (ormai si parla di oltre 100.000 perdite nell’esercito russo).
I timori che la politica monetaria stringente non sia ancora finita ieri non ha aiutato i mercati, con gli indici europei senza una direzione precisa e quelli americani che hanno visto il Nasdaq scivolare di circa l’1,50%, mentre il Dow Jones ha chiuso appena sopra la parità.
Questa mattina Tokyo e Shanghai sono leggermente negativi, con la borsa giapponese in arretramento dello 0,41%, mentre quella cinese accusa un calo dello 0,26%. Bene invece Hong Kong, dove l’Hang Seng guadagna l’1,35%.
Futures per il momento leggermente positivi, in rialzo più marcato a Wall Street.
Petrolio in leggero arretramento, con il WTI a $ 79,21 (- 0,52%).
Gas naturale Usa di nuovo sotto i $ 5 (4,872, – 4,98%).
Oro a $ 1.817 (- 0,41%), dopo che ieri aveva toccato i massimi da circa 6 mesi a questa parte.
Spread che si mantiene intorno ai 210 bp (208,6), per un rendimento del BTP, come detto, in area 4,60%.
Segnali di debolezza, oltre che del Bund, anche del Treasury americano, il cui rendimento sale dal 3,74% di venerdì al 3,83% di ieri.
Si mantiene stabile l’€/$, che si conferma a 1,065.
Continua la sua fase di “stanca” il bitcoin: questa mattina segna $ 16.648, – 0,30%.
Ps: che il mondo sia (e stia) cambiando lo vediamo tutti i giorni, senza bisogno di approfonditi studi sociologici. Ma lo comprendiamo ancor di più se guardiamo alla composizione dei nuclei famigliari. In Italia, oramai, si contano (dati peraltro aggiornati a 2 anni fa) oltre 9 milioni di famiglie composte da 1 sola persona, pari al 35,1% del totale (nel 1971 erano il 12,9%). Un fenomeno che nelle grandi città è ancora più evidente. A Roma i “single” sono il 47,5% dei nuclei famigliari (28% nel 2001). A Milano la percentuale di famiglie “unipersonali” ormai è pari al 52,8% del totale, con i single (379.000) che superano più del doppio quelle composte da coppie (164.000).