Fino al 7 ottobre, per quanto ubicato in un’area geografica non tra le più tranquille, il Canale di Suez non era ricompreso tra le zone a rischio guerra. Cosa non banale, in considerazione dell’importanza strategica per il commercio mondiale (oltre il 12% del commercio internazionale transita da lì): rientrare o meno in una zona “calda” fa la differenza, come ben possiamo immaginare.
La sicurezza (delle persone, dei mezzi di trasporto, delle merci) ha un costo. Con l’arrivo della guerra tra Israele e Hamas, le cose, per il commercio, sono profondamente cambiate. Ormai sappiamo che circumnavigare il continente africano per un cargo che trasporta container tra Shanghai e l’Europa (Rotterdam) significa allungare la rotta di oltre il 40%, con un impiego di tempo di almeno 10 giorni superiore: si parla di almeno 3.500 miglia nautiche in più, con un costo che, per il solo carburante, può aumentare di oltre $ 1ML. Il costo del noleggio di un container è arrivato a circa € 6.500, con un aumento di oltre il 200% da quando sono cominciati gli attacchi dei guerriglieri Houthi.
Ma dove forse si ha la percezione maggiore di quali possono essere “le conseguenze economiche di una guerra”, parafrasando quello che rimane uno dei testi basilari di Keynes, forse il più grande economista mai esistito, che scrisse “Le conseguenze economiche della pace” dopo che aveva partecipato, come delegato del Cancelliere dello scacchiere (così viene definito il Ministro dell’economia del Governo inglese) alla Conferenza di Versailles del 1919, in cui i Paesi usciti vincitori dalla 1° guerra mondiale avevano definito le sanzioni alla Germania, sanzioni da lui ritenute esageratamente onerose, al punto che non solo non avrebbero portato benefici ma, addirittura, avrebbero creato, nel medio termine, problemi ben più seri (mai previsione fu più azzeccata), almeno per quanto riguarda il settore dei trasporti, è il costo delle assicurazioni.
Fino al 7 ottobre il “tasso annuo di rischio guerra”, per chi attraversava il Canale di Suez, oscillava tra 1 e 2 centesimi: in sostanza un armatore, con $ 5.000 si assicurava, per un anno, una nave per un valore di circa $ 50ML.
Oggi, per assicurare, sempre per un anno, lo stesso valore, si spendono $ 160.000: 32 volte in più. Se, invece, decidesse di limitare la rotta all’Oceano Indiano, si spenderebbero tra i $ 18.000 e i $ 37.000. Con qualche compagnia assicurativa che inizia oggi a non coprire più il rischio, rifiutando polizze di quel genere.
Senza contare (in questo caso per il nostro Paese) altri disagi.
Con la circumnavigazione dal Capo di buona speranza, oggi molte navi “puntano” direttamente sui porti del nord Europa (Rotterdam, Amburgo), saltando, quindi, la rotta mediterranea. Ciò significa, banalmente, che far arrivare un container in quei porti può costare circa $ 500/600 in meno rispetto che farlo arrivare a Genova. Con il rischio che, quindi, si vada incontro ad una diminuzione delle attività portuali (cosa che sta già avvenendo, per es, per il porto di Napoli, dopo che MSC, la più grande società di navigazione al mondo, ha preso la decisione di non fermare più le sue navi in quella città).
E’ ogni giorno più evidente che se la situazione si protraesse “l’incubo” del 2020/21 tornerebbe a prendere corpo. Non è un caso che Philipe Lane, il capo economista della BCE, abbia ulteriormente messo in guardia sul rischio che l’economia, soprattutto europea, possa subire più del previsto la crisi attuale. Il rischio è che, al di là dei ritardi nell’approvvigionamento delle merci, l’aumento dei costi provochi un nuovo rallentamento economico, oltre che una risalita dei prezzi. Prezzi che nel mese di gennaio già hanno dato segnali di “risveglio”, facendo aumentare, nel nostro Paese, l’inflazione tendenziale allo 0,8% annuo (era 0,6% a dicembre). Mentre il “carrello della spesa”, quello che forse rende meglio l’evoluzione dei prezzi, facendo riferimento a ciò che “serve per vivere”, è risalito al 5,4%, con un’inflazione di fondo (al netto dei prodotti più volatili) al 2,8% (mentre in Europa è al 3,3%).
Tutte buone ragioni che invitano le Banche centrali alla cautela, cosa che hanno puntualmente messo in atto nelle riunioni dei giorni scorsi. E continueranno a fare sino a quando i segnali che il rallentamento dei prezzi prosegue ad un ritmo costante non saranno più che certi.
Pronto recupero, dopo lo scivolone di mercoledì (post dichiarazioni di Powell) della borsa americana, con il Nasdaq a + 1,21%, il Dow Jones a + 0,97% e lo S&P 500 + 1,25%.
In Asia continua la debolezza di Shanghai, che al momento lascia sul terreno l’1,46%.
In rialzo, invece, gli altri mercati: aTokyo il Nikkei sale dello 0,41%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng cresce dello 0,21%.
Rimbalzo per il Kospi di Seul, che sale del 2,2%.
In rialzo (+ 1%) anche la borsa di Mumbai.
Deciso rialzo per i futures Usa (Nasdaq + 0,9%), mentre quelli europei sembrano più titubanti.
Petrolio che non da segnali di particolare volatilità (WTI $ 74,32, + 0,58%).
Gas naturale Usa di nuovo vicino ai $ 2 (2,057).
Risale l’oro, che si riporta a $ 2.073.
Spread a 154,6 bp.
BTP a 3,71%.
Scende anche il Bund, al 2,14% dal 2,16%.
Treasury a 3,89%.
Perde colpi il $, che ha “assorbito” le dichiarazioni di Powell e oggi scambia a 1,088 vso €.
Si riporta sopra i $ 43.000 il bitcoin (43.145).
Ps: che i tempi cambiano ne abbiamo percezione ogni giorno. E non solo perché si è arrivati ad innestare nel cervello umano un microchip o perché è quasi scomparso l’uso del contante (almeno per pagare il caffè…). Lo testimonia molto bene il paniere, composto da oltre 1.915 prodotti e servizi, attraverso il quale l’Istat rileva l’andamento del costo della vita. Uno strumento che, piuttosto puntualmente, consente di capire come cambino le abitudini di vita e, quindi, i consumi. Come testimonia che il padel (ma anche i corsi di acquagym) piuttosto che “all you can eat”, per citare due esempi, facciano da oggi parte dell’indice.