Il Noma, considerato il miglior ristorante al mondo (ovviamente 3 stelle Michelin, l’unico ad aver vinto per 5 volte la classifica stilata dagli esperti), a fine 2024 chiuderà. Crisi di vocazione di Renè Redzepi, chef e comproprietario del ristorante? Ovviamente no. Costi troppo elevati e bassi incassi? Neanche a parlarne, vista la lista delle prenotazioni (prezzo medio: circa € 470). Secondo lo chef di origini albanesi si tratta di un modello non più sostenibile: il “nuovo corso” prevede aperture temporanee, in funzione delle idee creative che lui e il suo staff avranno individuato girando il mondo, studiando e scoprendo, di volta in volta, ingredienti nuovi.
Anche la “cucina” sembra quindi adeguarsi ad un mondo che cambia. Il mondo del lavoro, in effetti, già da tempo sembra orientato a modelli nuovi. Il “dogma” dei 5 giorni di lavoro, per 40 ore settimanali, già da tempo è in discussione, e l’arrivo della pandemia, con i lockdown e lo “stay home” hanno impresso una svolta epocale, introducendo nuove abitudini di vita. Ormai la settimana corta è una realtà in molti Paesi: l’Islanda l’ha introdotta ormai da 8 anni, e con lei la riduzione delle ore settimanali a 35. In Belgio dallo scorso novembre è stata introdotta una norma che prevede, per chi lo desidera, la possibilità di lavorare 4 giorni alla settimana. La Spagna ha stabilito 32 ore di lavoro, per 3 anni, senza riduzioni di stipendio. Situazione analoga in Gran Bretagna, dove, dalla scorsa estate, è in vigore una norma simile. E anche da noi, seppur con maggior lentezza, si stanno studiando situazioni nuove, con una settimana di 4 giorni in ufficio o presso la sede di lavoro, e 1 giorno in “smart working” (va detto, però, che la “spinta” non è data dalla volontà di permettere nuovi stili di vita, con maggior tempo libero a disposizione (alcuni studi dimostrano che una settimana “più corta” ha effetti molto benefici sulla produttività, favorendo altresì un maggior equilibrio tra lavoro e vita privata, con una forte riduzione dello stress e dell’assenteismo, portando addirittura ad un aumento del fatturato), quanto piuttosto dalla necessità di contenere i costi produttivi, aumentati a dismisura a causa della crisi energetica).
Che qualcosa debba cambiare lo si può intuire guardando ai nuovi dati occupazionali resi noti ieri dall’Istat, relativi allo scorso mese di novembre. L’occupazione, infatti, anche a causa del rallentamento economico (e probabilmente per la “stagionalità”, essendo in molte ragioni terminato il periodo turistico), in Italia è tornata a diminuire, con 27 occupati in meno, con un calo di 94.000 dipendenti fissi e un aumento di 60.000 lavoratori a termine e 6.000 autonomi. Il tasso di occupazione complessivo è pari al 60,3%, mentre la disoccupazione rimane stabile al 7,8%. Sale, invece, il tasso di inattività (coloro che un lavoro non ce l’hanno e neanche lo cercano), che sale al 34,5%, concentrandosi soprattutto nella fascia di età 15 – 24 anni (il computo prende in considerazione la fascia di età 15 – 64 anni). Con prospettive del genere, è probabile che, almeno per il nostro Paese, la pressione sui salari non sarà così forte, evitando, quindi, la “trasmissione” sui salari delle spinte inflazionistiche.
Il “qui e ora”, peraltro, continua a concentrarsi sul difficile equilibrio tra lotta all’inflazione e recessione (con Paesi come il nostro costretti a continue “mediazioni” con le autorità politiche e monetarie europee, come dimostrano i colloqui di ieri tra il nostro Primo Ministro e la Presidente della Commissione Europea, Ursula von del Leyen). A tenere banco, oggi, il convegno della RiskBank che si terrà a Parigi e in cui parleranno, questa mattina, il Presidente FED, Jerome Powell, quello della Bank of England, Andrew Bailey, nonché Isabel Schnabel, potente membro della BCE. Alte, quindi, sono le attese per comprendere in quale situazione ci troviamo e quali saranno le prossime mosse delle banche centrali. Attese che hanno fatto “sgonfiare” i rialzi di ieri sera a Wall Street, dove il Nasdaq ha “limato” non poco i guadagni, chiudendo a + 0,62%, dopo che per buona parte della giornata era stato ben oltre l’1%, e il Dow Jones addirittura in negativo (– 0,34%). A indurre le vendite sul finire della giornata i presidenti della FED di S. Francisco e di Atlanta, che hanno dichiarato che il tasso minimo a cui si porterà la FED è il 5% (oggi siamo nel range 4.25-4,50%).
Giornata contrastata per i listini asiatici: a Tokyo Nikkei in rialzo di circa lo 0,80%, mentre flettono sia Shnaghai, a – 0,21%, e Hong Kong, dove l’Hang Seng perde circa lo 0,50%. In Cina crescono i preparativi per il Capodanno cinese (inizierà il 22 gennaio): nel primo giorno di ingressi “liberi”, sono stati contatti, solo negli aeroporti, 250.000 nuovi arrivi dall’estero.
Futures negativi questa mattina sui mercati europei e statunitense, con cali tra lo 0,20 e lo 0,70%, con l’Europa più debole.
Ieri segnali di ripresa per tutte le materie prime, con il rame ai massimi degli ultimi 6 mesi, e il petrolio sostenuto. Questa mattina invecve prevalgono le vendite, con il WTI a $ 74,36 (- 0,47%) e il gas naturale Usa a $ 3,725 (- 4,88%).
Oro ai massimi da 8 mesi ($ 1.877,50), in leggera flessione questa mattina.
Buon recupero dello spread, passato ieri a 194 bp, stabile questa mattina.
Rendimento del BTP sotto il 4,25%.
Treasury Usa stabile a 3,52%.
In rafforzamento l’€, con €/$ a 1,0726.
In ripresa le criptovalute, con il bitcoin che “valica” la resistenza dei $ 17.000 (17.195,50).
Ps: clamoroso in Svizzera. In quella che da sempre è ritenuto il Paese in cui, per eccellenza, si “preservano” i risparmi (anche se, negli ultimi anni, con la fine del “segreto bancario”, questa caratteristica sembra venuta un po’ meno), la Banca Nazionale ha comunicato perdite per oltre 132 MD di Franchi Svizzeri. La più alta della sua storia centenaria. Perdita che sarebbe stata di ben 142MD se l’ultimo trimestre non avesse portato un risultato positivo per 10 MD di CHF. Perdite che fanno “a pugni”, peraltro, con la situazione economica del Paese, che a fine 2022 aveva una disoccupazione del 2,2% e un’inflazione del 2,8%. Numeri da far impallidire l’Italia del boom economico (lasciamo perdere gli attuali…).