Il 24 febbraio, ormai quasi 1 mese fa, iniziava l’attacco russo all’Ucraina. Quella che doveva essere una sorta di “Guerra dei 6 giorni”, quella che si combattè in Medio Oriente tra il 5 e il 10 giugno 1967 tra Israele da una parte e Giordania, Egitto e Siria dall’altra, si sta rivelando per Putin una palude ben più grave ed insidiosa: il rischio che l’Ucraina possa diventare, per l’Armata Russa, un nuovo Afganisthan o addirittura una sorta di Vietnam, con il passare dei giorni diventa sempre più concreto. Di certo il Presidente russo ha fatto male i suoi conti, o perché mal consigliato (non a caso sono già scattate le “epurazioni”) o perché convinto del proprio strapotere. Molti, ad oggi, gli errori commessi, a partire dal non aver considerato che le dimensioni dell’Ucraina (oltre 600.000 km2 con una popolazione, prima dello scoppio del conflitto, di circa 40ML di abitanti) avrebbero richiesto un impiego di uomini e mezzi ben più massiccio. Fatto, questo, strettamente collegato alla “resistenza” del popolo ucraino: mai avrebbe pensato che il Presidente Zelenskji sarebbe stato in grado di tenere unito il proprio popolo al punto e avere un esercito così motivato e senza paura. Per non parlare dell’unità di tutto l’Occidente, dall’Europa agli USA, ma anche di gran parte del mondo, andando ben oltre l’alleanza NATO (basti pensare che la delibera dell’ONU contro l’invasione è stata votata da 141 Paesi, mentre solo 5 (tra cui la stessa Russia) hanno votato a favore.
A distanza di 28 giorni, le conseguenze di una delle Guerre probabilmente più strumentali che si ricordino, sono sotto gli occhi di tutti. Da un punto di vista umanitario, i profughi ucraini ormai hanno superato i 3 ML, diretti soprattutto verso la Polonia (quasi 2 ML: non a caso il Paese ha chiesto alla UE un aiuto straordinario), mentre gli sfollati (i cittadini costretti ad abbandonare le città in cui vivevano) sono oltre 2 ML. Da un punto di vista economico, l’Ucraina (ricordiamolo ancora una volta, uno dei Paesi più poveri d’Europa, con un reddito procapite pari a circa $ 13.000) è oramai in ginocchio: con la distruzione, avvenuta tra venerdì e sabato, dell’impianto siderurgico di Arzvostal, uno degli stabilimenti più grandi d’Europa, si calcola che il Paese abbia perso complessivamente circa il 30% della propria ricchezza produttiva. Molte città sono ormai ridotte in macerie (Mariupol, sul mar d’Azov, è una città fantasma), e il conflitto ci è diffuso in tutte i principali centri del Paese.
Senza contare le conseguenze sull’economia russa, che quest’anno, con le sanzioni emanate, potrebbe cadere tra il 10 e il 15%. Un’economia che sarà pur vero pari alla metà del PIL della sola California, ma che contraddistingue il Paese più grande al mondo e, soprattutto, 2° potenza militare.
Ecco il motivo per cui si fanno sempre più largo le preoccupazioni a livello globale, non tanto sulla sicurezza (quasi tutti gli osservatori, per quanto non completamente tranquilli, ritengono difficile l’estensione del conflitto), quanto piuttosto sulle ricadute a livello economico.
Ormai si da per scontato che il PIL globale subirà una contrazione (in Europa si passerà dal 4,2% al 3,7% se non al 3,4%, negli USA scenderà dal 4,2% al 2,8%). Peraltro, i fattori di “crisi” non si limitano alla Guerra (per il 44% degli analisti il fattore di rischio più grande), ma ne comprendono altri: la parola recessione non è più un taboo (il 25% degli osservatori la ritiene probabile in Europa, il 20% negli USA), mentre l’inflazione preoccupa oltre il 18% degli analisti. L’accoppiata recessione-stagflazione è la paura più grande per i mercati: non a caso Bank of America la ritiene possibile al 65% (a febbraio le probabilità erano al 30%). In tal senso, un indicatore potrebbe essere l’elemento più evidente: negli USA il rendimento dei titoli a 2 anni ha quasi raggiunto quello a 10 anni (fenomeno definito “appiattimento della curva”). Solo 1 anno fa era a 150 bp e a gennaio era a 80 bp. Ora lo troviamo a 19 bp, una differenza minima, Se si arrivasse all’invertenza, vale a dire con i rendimenti a breve maggiore rispetto a quelli a lunga (10 anni), il segnale sarebbe pericolosissimo: infatti, dagli anni 60 ogni volta che si è verificata tale situazione è seguita la recessione economica. Vero è che le stime sul PIL, per quanto inferiori a qualche mese fa, rimangono saldamente positive, però il “campanello di allarme” comincia a suonare. L’incertezza degli scenari futuri fa il resto, mettendo quotidianamente in discussione le previsioni. Guardando, comunque, al “bicchiere mezzo pieno”, anche a fronte scenari “shock”, come l’interruzione delle forniture energetiche da parte della Russia (ipotesi difficile, essendo l’energia praticamente l’unica fonte di “reddito” per la Russia, per di più in valuta “pregiata”, fattore ancora più importante nel momento in cui il rublo non è mai stato così svalutato), il PIL annuale globale cadrebbe del 3%, mentre se si limitasse a 2 trimestri, l’arretramento sarebbe dell’1,5%. Il discorso comprenderebbe anche il nostro Paese: infatti, se anche la crescita per i prossimi trimestri dovesse fermarsi, “l’inerzia” permetterebbe una crescita tra l’1,8 e il 2%.
Inizio settimana incerto sui mercati asiatici. Chiusa la borsa di Tokyo per festività, Shanghai si appresta a chiudere intorno alla parità, mentre Hong Kong scende di circa 1 punto percentuale. Le quotazioni di Evergrande sono sospese in attese di comunicazioni.
Se “allarghiamo” lo sguardo all’andamento dell’ultimo mese, si può notare che gli indici globali hanno completamento assorbito la caduta registrata nei primi giorni del conflitto: a distanza di circa 1 mese l’indice FTSE all world è positivo per l’1,26%. Ancora meglio ha fatto lo S&P 500, positivo per oltre il 4,5% (in “soldoni”, la capitalizzazione è aumentata di $ 1.600 MD). Situazione invece negativa in Europa (comprensibile, vista la vicinanza geografica e il maggior impatto sull’economia dell’area), anche se il “gap” è quasi colmato. Manca, infatti, “solo” il 2,7% per tornare alle quotazioni del 24 febbraio. Si conferma, quindi, ancora una volta, che i periodici bellici spesso diventano, per i mercati, periodi di “opportunità” di investimento.
Futures al momento leggermente negativi ovunque, con cali contenuti sotto il – 0,5%.
Scatto del Petrolio, con il WTI che torna oltre i $ 107 (+ 3,89%).
Gas naturale a $ 4,991 (+ 0,90%).
In ridimensionamento l’oro, che torna verso i $ 1.900 (1.926, – 0,27%).
Spread a 151,30 bp, con il rendimento del BTP intorno a 1,85%.
Treasury a 2,14%.
Stabile l’€/$ a 1,105.
Senza particolare sprint il bitcoin, a $ 41.000 (- 1,96%). Ps: impossibile oggi non parlare di Ferrari. Dopo 903 giorni le campane di Maranello sono tornate a suonare. E come anche: 1° e 2°, come non capitava dal 2019 (GP di Singapore). Ma forse ancora più clamoroso quanto è successo nel rugby sabato: al 6 Nazioni, il torneo che comprende le 6 squadre nazionali più forti d’Europa, l’Italia torna a vincere dopo 7 anni e