I verbali dell’ultima riunione di marzo della BCE lasciano poco spazio alle interpretazioni: “le ragioni per prendere in considerazione un taglio dei tassi si sono rafforzate” e “la data per un primo taglio dei tassi comincia ad essere visibile” non hanno bisogno di molti commenti.
Anche dalle parti di Francoforte, insomma, ormai si è fatto largo il convincimento che i tempi sono maturi. Le posizioni tra “falchi” (come il Presidente della Bundesbank, Joachim Nagel) e “colombe” (per esempio il nostro Fabio Panetta, Presidente di Bankitalia) si sono molto ravvicinate. E la stessa Christine Lagarde, Presidente BCE, è sulla stessa lunghezza d’onda.
Con giugno, quindi, dovremo assistere, finalmente, alla tanto attesa “inversione”: ormai è da settembre 23 che i tassi non si muovono e, dopo l’euforia dell’autunno, quando in molti “spingevano” (o speravano) in un’accelerazione per riportare le condizioni del mercato monetario verso livelli molto “compiacenti” (con 6, se non addirittura 7, tagli), si è tornati con i “piedi per terra”, con una ben più realistica (e sana) riduzione di 3 tagli dello 0,25% ciascuno, e quindi per uno 0,75% complessivo.
E’ molto probabile, per non dire certo, che per una volta sarà la BCE (“scortata” dalla Bank of England) a tirare la volata. Si pensa, infatti, che la FED a giugno possa rimanere “a guardare”. Per almeno 3 ragioni. in primo luogo, la crescita americana, al momento, non da segnali di stanchezza. Allo stesso tempo, l’inflazione continua a rimanere su livelli leggermente superiori alle attese, rendendo più lontano nel tempo il raggiungimento del “target” fissato dalla FED (il famoso 2%, al punto che qualche economista inizia a “spostare” verso l’alto quel livello, per esempio il 3%, ritenendo che anche se ci si fermasse a quel punto, l’economia, e i redditi, non ne risentirebbero particolarmente). Terzo, l’occupazione continua a dare segnali di forza: ieri sono stati resi note le nuove richieste dei sussidi di disoccupazione, pari a 221.000 unità, solo 7.000 in più rispetto alle 214.000 previste. Il pensiero di Powell, comunque, è che l’inflazione non andrà a modificare i piani: al massimo potrebbe esserci una “discrasia temporale”, con la FED, appunto, che rincorre la BCE. Infatti, se il “consensus” degli operatori per un ribasso della BCE a partire da giugno arriva al 100%, oltre oceano si ferma al 66%, mentre arriva al 100% ( o giù di lì) a luglio. Proprio ieri sera, peraltro, quando oramai in Europa le contrattazioni si erano chiuse da un pezzo, un membro del Direttorio della FED (Neel Kashkari, della FED di Minneapolis) ha dichiarato, gelando letteralmente i mercati americani (fino a quel momento ampiamenti positivi), che potrebbe esserci la possibilità che negli USA quest’anno potrebbero non esserci tagli dei tassi.
Ovviamente, come il “mantra” va ripetendo da mesi, tutto dipenderà dai dati che si succederanno nei prossimi 2 mesi (oltre che dalle possibili evoluzioni geopolitiche). Se, come si pensa, “il pilota automatico” procederà senza intoppi, non ci dovrebbero essere stravolgimenti ai piani delle autorità monetarie. Uno, a voler essere pignoli, potrebbe essere il rischio nel caso in cui la BCE dovesse muoversi con troppo anticipo rispetto alla FED: la riduzione dei tassi ha, di norma, un impatto sul cambio delle valute interessate, favorendo le valute dei Paesi che non procedono in quella direzione. Quindi è molto probabile che, se a giugno la BCE si muovesse e la FED rimanesse ferma, che l’€ si possa indebolire verso $. Il rischio, pertanto, potrebbe essere quello di un’inflazione “importata”, derivante dal peggioramento del rapporto di cambio €/$. Ma indubbiamente sarebbe il male minore (fermo restando che le previsioni, come detto, nonostante le dichiarazioni a cui si faceva riferimento più sopra, indicano che la “cugina americana” dovrebbe seguire a ruota a luglio): i danni che deriverebbero da una crescita strozzata dalla rigidità della BCE sarebbero per più gravi (e duraturi nel tempo) rispetto ad una politica monetaria più espansiva.
Come detto, le affermazioni di Kashkari hanno bruscamente segnato il finale di seduta a Wall Street: nell’arco di un paio di ore il Nasdaq, che fino a quel momento faceva segnare un rialzo vicino all’1%, è sceso sino a chiudere a – 1,55%. Sorte analoga per il Dow Jones, in arretramento dell’1,35%. E lo S&P 500, dopo un avvio in rialzo dello 0,9%, si è ripiegato dell’1,2%. A testimonianza della “sensibilità” degli operatori rispetto all’argomento tassi (e di quanto le aspettative stiano incidendo sulle quotazioni).
Questa mattina i mercati del Pacifico reagiscono in modo piuttosto difforme: il Nikkei giapponese, più sensibile ai “movimenti” americani, cede circa il 2%, portando a – 3,3% il calo della settimana. Recupera, dopo un avvio negativo, l’Hang Seng di Hong Kong, che si è riportato intorno alla parità. Chiusi, invece, i mercati cinesi.
I Futures questa mattina non sembrano dare troppo credito alla “versione di Kashkari”: quelli americani danno, infatti, segnali di ripresa, mentre quelli europei, sono solo modestamente negativi (un minimo di “assestamento” è normale che ci sia, visto che, quando è uscito il comunicato, erano chiusi da almeno un paio di ore).
Ulteriore passo in avanti del petrolio, con il WTI che si porta ad un passo da $ 87 (86,95, + 0,31% nelle prime contrattazioni di giornata).
Gas naturale Usa a $ 1,767 (- 0,56%).
Oro poco sotto i $ 2.300 (2.298, – 0,53%).
Cerca il recupero lo spread, che scende a 136,2 bp.
In calo anche il rendimento del BTP, sceso di circa 10 bp (3,73% la chiusura di ieri sera).
Bund a 2,36%.
Treasury a 4,31%, dal 4,36% (il che conferma che molti operatori hanno giudicato “estemporanea” l’affermazione del membro della FED).
€/$ poco mosso, a 1,0828.
Bitcoin sempre in “ondeggiamento” intorno a $ 67.000 (66.898).
Ps: succede a Milano. In Via Montenapoleone è stato ceduto, dal fondo Blackstone, un immobile per un valore di € 1,3 MD. Si tratta della transazione immobiliare più cara (per un singolo asset) mai avvenuta nel nostro Paese. Pari ad un valore al mq di € 110.000 (centodiecimila), per un’estensione di 11.800 mq commerciali. A questi prezzi Via Montenapoleone si conferma la seconda strada più cara al mondo, dopo la Fifth Avenue di New York. A comprare è stata Kering, la “maison” del lusso a cui fanno capo, tra gli altri, i marchi Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta. Non si sa ancora quale sarà la destinazione (anche se al piano terra è situata la Caffetteria Cova, una delle “istituzioni” milanesi). Se, come molto probabile, almeno in parte rimarrà in affitto, i prezzi delle locazioni potrebbero essere da brivido. Un semplice calcolo può aiutarci a comprendere: se si applicasse un “rendimento” (lordo) all’investimento del 5% (stando bassi), si arriverebbe alla cifra “monstre” di € 5.500 al mq: che significano € 55.000 per 10 mq (o € 550.000 per 100).