Il p/e (price earnings), il rapporto tra il prezzo di un’azione e l’utile, vale a dire il reddito netto prodotto, è, probabilmente, il più noto e diffuso indicatore utilizzato da analisti ed investitori per verificare “l’equità”, e quindi la convenienza o meno, di un determinato titolo. Più è alto più significa che il prezzo di una determinata azione è cara. Si ritiene (anche se il dato va preso assolutamente “con le pinze”, in considerazione di una molteplicità di elementi: mercato di riferimento, settore, prospettive societarie, etc) che un rapporto “equo” sia intorno a 13-15: in sostanza, ipotizzando che sia 15, significa che chi volesse acquisire il controllo di una determinata società, impiegherà 15 anni per ripagarsi, ipotizzando che gli utili rimangano quelli sulla cui base si è definito il rapporto, l’investimento. Peraltro, le “eccezioni” sono sempre più diffuse: per es, il p/e dell’indice Nasdaq è intorno a 25, mentre quello relativo al Dow Jones è stimato a circa 18. Sulla carta, quindi, sono entrambi cari, ma ben sappiamo come stanno andando le cose (non solo sui mercati americani).
Dal 2009 Janus Henderson, società di asset management americana, stila un report sull’andamento delle principali società quotate a livello globale, con particolare riguardo alla dinamica degli utili aziendali e ai dividendi distribuiti. In questi 15 anni, a parte la drammatica parentesi del 2020 e una relativa fase di “stallo” tra il 2014 e il 2016, si è sempre notata una progressione degli utili e dei dividendi.
Con riferimento al 2023, si calcola che siano stati distribuiti ben $ 1.660 MD di dividendi, con un aumento, rispetto all’anno precedente, di circa il 5%: dal conteggio sono esclusi eventuali pagamenti straordinari, oltre che gli effetti valutari, al lordo dei quali la percentuale salirebbe al 7,2%. Ben l’86% delle società analizzate ha aumentato i dividendi o, per lo meno, non li ha diminuiti: a fare da “traino” il settore bancario, premiato dal rialzo dei tassi. Al di là dei settori merceologici, va detto che il rialzo ha coinvolto un po’ tutte le aree geografiche, con i principali mercati in prima fila.
Più che lo “sguardo al passato”, per quanto importante, ciò che fa ben sperare sono le previsioni per l’anno in corso. Janus, infatti, stima che anche il 2024 ci consegnerà risultati assolutamente positivi, che porteranno il “monte dividendi” a toccare la cifra di $ 1.720 MD, in ulteriore aumento, rispetto all’anno pregresso, del 3,7%, che potrebbe diventare un + 5% se si considerano i probabili dividendi straordinari (leggermente inferiori, questi ultimi, verso il 2023).
Numeri assolutamente positivi, meritevoli di qualche considerazione.
In primis, l’aumento dei dividendi “certifica” che l’ipotesi di una recessione si fa sempre più remota, a favore di un “atterraggio morbido” delle varie economie.
In secondo luogo, se è vero che gli utili aziendali continueranno a salire, ne consegue che anche il loro prezzo potrà salire senza che si arrivi a valori da “bolla” speculativa. Certamente potrebbe esserci casi di p/e assolutamente “out of order” (già oggi molte società, anche tra le più grandi e conosciute – una per tutte Nvidia – si trovano in quel territorio), ma (e qui subentra la valutazione anche del settore in cui si ritrovano ad operare) ciò non significa che non potranno continuare a crescere (nel caso specifico della società di microchip è vero che il titolo è cresciuto, nell’ultimo anno, di circa il 300%, ma gli ultimi sono cresciuti ancora di più).
La terza considerazione è riferita al taglio dei tassi. Assodato che il percorso è tracciato (FED e BCE in prima fila), se la recessione non lambisce le economie la decisione non è così stringente. Si fa, pertanto, sempre più strada l’ipotesi che vedremo i primi tagli verso il mese di giugno, come dimostra il fatto che le probabilità che la FED possa muoversi già a maggio sono ulteriormente scese, con solo l’11% di probabilità che possa verificarsi (dal precedente 18%). Anche perché l’inflazione USA rimane piuttosto “appiccicosa”, come confermano i dati resi noti ieri. I prezzi al consumo, infatti, a febbraio sono aumentati più del previsto rispetto al mese di gennaio, con una crescita del 3,2%, con i prezzi “core” (quelli al netto delle componenti più volatili, energia ed alimentari) addirittura saliti del 3,8%. Tutte buone ragioni per invitare alla prudenza Powell, come da lui stesso comunicato non più tardi della settimana scorsa.
Un po’ diversa potrebbe risultare la situazione in Europa, vista la perdurante crisi della Germania e il rallentamento della Francia, paesi “trainanti” per l’economia UE. Se i prossimi dati dovessero confermare lo “stallo” economico, accompagnato da quello dei prezzi, non è detto che la BCE, per una volta, non sia chiamata a fare il “primo passo”, senza dover “rincorrere”, come di solito succede, la Banca Centrale americana.
Ieri sera nuova giornata positiva per gli indici USA: Dow Jones + 0,61%, Nasdaq + 1,49%, S&P 500 + 1,1%.
Tirano il fiato, questa mattina, gli indici asiatici, tutti, comunque, non lontani dalla parità.
A Tokyo il Nikkei fa segnare – 0,26%.
Più o meno sugli stessi livelli Shanghai (- 0,40%), mentre a Hong Kong l’Hang Seng sfiora la parità (– 0,05%).
Futures che “scommettono” su una nuova giornata positiva degli indici europei e americani.
Stabile il petrolio, con il WTI che non abbandona area $ 78 (77,92, + 0,35%).
Gas naturale Usa a $ 1,707 (- 0,64%).
In leggera contrazione l’oro, che si allontana dai massimi (questa mattina $ 2.165) dopo il dato sull’inflazione americana che allontana l’inizio del taglio dei tassi.
Spread a 125,3, minimo da gennaio 2022.
BTP al 3,59%.
Bund 2,32%.
In leggero rialzo il rendimento del treasury, a 4,13%.
Invariato l’€/$, a 1,0923.
“Stop and go” del bitcoin: dopo il brusco calo di ieri, che aveva riportato le quotazioni a $ 69.000, questa mattina svetta a $ 73.695.
Ps: ormai per Djokovich, n. 1 del ranking mondiale (anche se non si sa ancora per quanto) “the italian job” è diventato una sindrome. Dopo le recenti sconfitte con Sinner (3 volte) e Musetti, ieri è stata la volta di un altro ventenne, praticamente sconosciuto (Luca Nardi, n. 123 nella classifica Atp), che lo ha battuto al torneo di Indian Wells, in California. E pensare che il vincitore si era dato come obiettivo evitare una sconfitta “disonorevole” (tipo 6-1, 6-1).