Secondo l’OCSE , l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, che riunisce 38 Paesi di tutto il mondo, nata a Parigi nel 1960, di questo passo l’Italia, entro il 2040, raggiungerà un rapporto debito/PIL del 180% (oggi, come noto, siamo al 141%, con qualche difficoltà a farlo scendere, in considerazione di una crescita che difficilmente, per l’anno appena iniziato, supererà lo 0,6/0,7%, nonostante il Governo stimi un + 1,2% – che, se non dovesse essere raggiunto, essendo alla base della legge finanziaria, molto probabilmente porterebbe alla necessità di una “rivisitazione” dei conti). Nel rapporto, appena pubblicato, si dice che l’unico modo per fermare l’indebolimento dei conti pubblici sono indispensabili interventi in ambito fiscale (per esempio, spostando trasferendo parte delle imposizioni dal lavoro ai patrimoni, per es. sugli immobili o aumentando le tasse di successione, oggi pari al 4% e tra le più basse al mondo – provvedimento peraltro recentemente suggerito anche da Carlo Cottarelli, oltre, ovviamente, inasprendo la lotta all’evasione, vero “buco nero” dell’economia italiana) e in ambito previdenziale, eliminando, per es, regimi di favore, come il prepensionamento anticipato e riducendo l’entità dell’ammontare pensionistico per le famiglie più abbienti. Oltre, ovviamente, ad una serie di provvedimenti mirati a migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione (cosa, peraltro, già prevista dal PNRR in corso di esecuzione) e la trasparenza degli appalti pubblici. Il tutto in un contesto monetario ed economico internazionale migliore di quello che abbiamo vissuto (e, in parte, stiamo ancora vivendo). Insomma, un vero e proprio programma economico-sociale di lungo periodo, per realizzare il quale forse 15 anni non sono sufficienti, vista la “resistenza” al cambiamento di certe abitudini.
Quello che senz’altro può mutare, nel breve, è il contesto economico (a condizione che non si verifichino nuovi “shock” o, peggio ancora, veri e propri “cigni neri” come quelli che ci hanno accompagnato negli ultimi 4-5 anni).
Che si vada verso una riduzione dell’inflazione (Houthi permettendo) è ormai piuttosto evidente: si pensi che, nel nostro Paese, a dicembre è stata pari, anno su anno, allo 0,5%, livello quasi da “deflazione giapponese”. Al di là di questo dato (quella italiana, al momento, è un’eccezione), la stima su cui praticamente tutti (governi, istituzioni, analisti, asset manager) si trovano d’accordo è che, per il 2024, i prezzi non dovrebbero salire oltre il 2,4-2,6%, per poi scendere ulteriormente, per stabilizzarsi sul “livello target” su cui le Banche Centrali hanno concentrato i loro sforzi a partire dal 2022.
Il “fermo macchine” avviato, appunto, dalle Banche Centrali, che dallo scorso mese di settembre si sono “messe alla finestra”, conferma questa impostazione (e questa visione).
Oggi, come ricordato in altre occasione, la discussione si concentra non su “dove vanno le banche centrali”, ma su quando inizieranno a rendere un po’ più espansiva la loro politica monetaria. Nell’arco di 3-4 settimane si è passati da una (pericolosa) euforia ad un più sano realismo, con i tempi (del primo taglio) che si sono un po’ dilatati, passando da stime di qualche settimana a qualche mese. Ecco, quindi, che si parla non più di marzo (con qualcuno che azzardava addirittura febbraio o prima ancora), ma, almeno negli USA, di settembre (fermo restando che, se le condizioni macro-economiche lo evidenziassero, nulla vieta di intervenire un po’ prima). Un allungamento dei tempi che, da quanto traspare, non ha cambiato l’umore degli investitori, come dimostra il nuovo record registrato ieri sera a Wall Street (un discorso un po’ diverso lo merita la Cina, che ha iniziato l’anno, per quanto riguarda i mercati finanziari come si era chiuso il 2023, e quindi in grande sofferenza, mitigato solo in parte dal rimbalzo di Hong Kong di questa mattina).
Che il taglio dei tassi sia praticamente certo, lo si evince anche da un rapporto di una importante casa di investimento (M&G). Secondo gli esperti degli investimenti obbligazionari della società inglese, nei 3 mesi che hanno preceduto il 1° taglio dei tassi da parte della FED americana, il rendimento del Treasury decennale (il “benchmark” di riferimento) è sceso di almeno 90 punti base. Pertanto, in base a tale teoria, non dovremmo essere così lontani da quel momento, se è vero che a fine ottobre 2023 si era intorno al 5% e, alla chiusura di ieri, eravamo tornati al 4,09%. Se così fosse, quindi, la scadenza di settembre come data di avvio potrebbe essere anticipata. Rimane il fatto che anche l’Amministrazione americana (peraltro un po’ come tutti i Paesi) si trova nella necessità, quest’anno, di rinnovare almeno $ 7.600 MD di Treasury che arriveranno a scadenza senza più la “manina” della Banca Centrale pronta ad intervenire in soccorso, anzi, al contrario, con la FED che continuerà ad immettere altri titoli sul mercato attraverso il cosi detto “quantitative tightening”. Senza contare l’incognita delle Presidenziali che, più passeranno i mesi, più “marchieranno”, probabilmente, l’andamento dei mercati.
Come detto, ieri, seppur di pochi decimali, nuovo record della borsa USA: il Nasdaq ha chiuso a + 0,09%, mentre meglio ha fatto il Dow Jones, con + 0,36%, con lo S&P 500 a + 0,22%.
Il rialzo americano favorisce il rimbalzo delle borse cinesi, in primo luogo Hong Kong, dove l’Hang Seng “respira” grazie ad un + 2,62%. Meno effervescente Shanghai, comunque in rialzo dello 0,53%.
Si concede una pausa, più che legittima, a Tokyo, il Nikkei, che si avvia alla chiusura frazionalmente negativo.
Futures che sembrano intenzionati a ripetere la giornata di ieri, con tutti gli indici in rialzo (compreso il nostro MIB, ieri unico negativo tra i principali indici europei).
Continua la stabilità del petrolio, con il WTI sempre in area $ 75 (74,94, + 0,15% in avvio di contrattazioni).
Al contrario, sempre debole il gas, sia quello naturale Usa che quello europeo: nonostante le temperature rigide, infatti, a mantenere bassi i prezzi contribuiscono gli stoccaggi, mai a questi livelli in considerazione della stagionalità.
Oro a $ 2.036, + 0,61%.
Spread a 153,8 bp, ai livelli più bassi dal 2022, per un BTP al 3,83%.
Bund 2,28%.
Treasury a 4,09%, dal precedente 4,11%.
Leggero recupero dell’€, con l’€/$ a 1,091.
Continua la ritirata del bitcoin, sceso sotto i $ 40.000, anche se questa mattina da piccoli segnali di recupero (39.834, + 0,79%).
Ps: e quindi “Rombo di tuono” di ha lasciato. Un soprannome, quello creato da un grandissimo del giornalismo come Gianni Brera, che evoca un nativo indiano, ma che ben rende l’idea. Un personaggio quasi epico “Giggiriva” o “Gigirriva” (uno dei pochi per cui nome-cognome, con una piccola “storpiatura”, possono fondersi per diventare la stessa cosa), che potrebbe benissimo, visti anche i suoi lineamenti, essere uscito da un poema omerico. Forse, anzi, senz’altro, non il più grande giocatore italiano, ma senza dubbio il vero “hombre vertical” dello sport italiano, che ha saputo dire no ai tanti soldi che tutti i più grandi club italiani gli avevano offerto per amore verso la terra che lo aveva adottato e i suoi tifosi. Altro che Arabia Saudita….