Ad un’auto che viaggia a 130 km orari servono, in teoria, 110 mt per arrestarsi. Se si viaggia a 90 km orari ne servono, invece, 60. A 50 km orari, invece, circa 25. Quindi, la lunghezza della frenata è inversamente proporzionale rispetto alla velocità (ne servono, proporzionalmente, molti meno ad una velocità più bassa rispetto ad una più alta).
Forse il paragone non è molto “ortodosso”, ma può essere utile a comprendere quali possono essere i rischi di manovre monetarie troppo accelerate o troppo lente.
Ormai è chiaro a tutti che i tassi hanno toccato il “picco”, il così detto “pivot”. Il tema, quindi, sul tavolo dei banchieri, non è la “direzione di marcia” (è evidente che da qui non potranno che scendere, salvo shock ad oggi imprevedibili), ma la sua velocità. Quello di cui si inizia a dibattere non è se far scendere i tassi o no, ma quando iniziare e con quale ritmo, con le 2 solite “scuole di pensiero” pronte a fronteggiarsi: quelli più “ortodossi” da una parte (sempre quelli, peraltro, vale a dire gli esponenti, politici e monetari, di Paesi finanziariamente solidi e al “riparo” dagli acquazzoni) e chi, al contrario, si trova a dare voce a quelli per i quali un elevato costo del denaro può creare non pochi problemi sul fronte della crescita.
A prevalere, in questa fase, è la tesi che un’accelerazione della discesa potrebbe creare problemi piuttosto che contribuire alla loro soluzione. Le parole, al Forum di Davos, della Presidente BCE Christine Lagarde sono state, in questo senso, piuttosto esplicite, spostando in avanti di almeno 3 mesi il momento in cui, probabilmente, in Europa vedremo il primo taglio. Non c’è dubbio che, come più volte ricordato, nell’ultimo parte dell’anno i mercati avessero scommesso su una “velocità di crociera” maggiore, arrivando a ipotizzare, nell’anno in corso, 6 tagli, quindi con una “sforbiciata” di almeno 150 bp. Ora, invece, si parla di 4, massimo 5, con un ribasso non superiore all’1,25%. Come i mercati, peraltro, stanno iniziando a “scontare”: questo il motivo, infatti, che, in questo primo scorcio d’anno, ha portato a rivedere le quotazioni di molti indici azionari e, in maniera ancora, più evidente, del comparto obbligazionario, con i tassi che sono tornati a crescere.
La volontà di “gettare acqua sul fuoco” da parte della Lagarde e di altri componenti del Comitato Direttivo della BCE è motivata anche da un altro fattore, vale a dire evitare che si possano verificare battute d’arresto pesanti da parte dei mercati. E’ ovvio che, nel momento in cui le aspettative (di discesa) diventano molto forti, per non dire quasi certe, nel caso in cui così non fosse la delusione sarebbe ancora più forte, e le ricadute potrebbero essere gravi. In molti, in queste settimane, hanno probabilmente sottovalutato il fatto che, come confermano le ultime rilevazioni, l’inflazione si sta dimostrando un “osso duro” (proprio ieri sono stati resi noti i dati in Gran Bretagna, che ha fatto registrare, a dicembre, un aumento dei prezzi del 4,2%, lo stesso livello di novembre). A cui si devono aggiungere i timori legati a quanto sta succedendo nella zona del Golfo di Aden e del Mar Rosso, un “deja vu” di cui abbiamo conosciuto bene le conseguenze, sia in termini di rallentamento della “supply chain” e, ancor di più, di aumento dei costi del trasporto marittimo, con ricadute, che ben possiamo immaginare, sui prezzi finali.
Tutto sta, ancora una volta, nel capire come è messa l’economia.
Se in Europa i segnali di rallentamento si fanno sempre più evidenti (cosa che non aiuta le scelte della Banca Centrale, se è vero che una debolezza del ciclo economico consiglierebbe un taglio del costo del denaro, mentre l’inflazione più ostica porta nella direzione opposta), negli Usa continuano i segnali di forza: questa volta a dircelo sono i consumi del periodo natalizio, piuttosto sostenuti. Da qui, nella giornata di ieri, il rialzo dei rendimenti dei titoli obbligazionari, che ha portato ad un ripiegamento degli indizi azionari. Con la FED sempre più convinta che non si andrà oltre i 3 tagli. Ulteriore motivo che sta portando a “ricoperture”, dopo la corsa quasi esagerata di novembre e dicembre.
Le buone notizie sul fronte macro-economico, come detto, ieri hanno “depresso” il mercato americano, con il Nasdaq he ha chiuso a – 0,56%, mentre il Dow Jones ha fatto registrare – 0,25%.
Questa mattina i mercati asiatici sembrano voler reagire alla caduta di ieri: a Hong Kong l’indice Hang Seng sale dello 0,76%. In recupero, dopo un difficile avvio, Shanghai, a + 0,43%.
Torna, invece, intorno alla parità il Nikkei a Tokyo.
Spunti positivi anche negli altri mercati, con l’indice MSCI Asia Pacific che cresce dello 0,2%.
Segnali di risveglio anche dai futures, in moderato rialzo.
In ripresa il petrolio, con il WTI a $ 73,26 (+ 0,85%).
Arresta la sua caduta anche il gas naturale Usa, a $ 2,89 (+ 0,45%).
Oro a $ 2.014, + 0,30%.
Spread sui livelli di ieri (161,7 bp).
Btp tornato verso il 4% (3,90), dal 3,82% del giorno precedente.
Bund 2,29%.
Treasury 4,08%.
Stabile l’€/$, a 1,0893.
Così come il bitcoin, a $ 42.843 (+ 0,25% questa mattina).
Ps: le criptovalute sono di grande attualità. Sono centinaia, anche se spesso vengono identificate unicamente nel bitcoin, la più nota e diffusa. Un’attualità diventata nuovamente forte con l’approvazione, la settimana scorsa, da parte della FED, di ben 11 ETF che avranno come sottostante, appunto, il bitcoin. Un mondo molto attuale, ma, ancor di più, “nebuloso”, assolutamente non regolamentato e che sfugge praticamente a tutti i controlli. Tranne, forse, ad uno: vale a dire il “mining”, cioè “l’estrazione”, attraverso potentissimi computer, della criptovaluta, che nel tempo andrà ad esaurirsi (l’ultimo bitcoin dovrebbe essere nel 2140. Un’attività, quella di “estrazione”, che getta, però, altre ombre sul settore. L’anno scorso, infatti, il “mining” ha assorbito oltre 140 Terawattora di elettricità nel mondo, un consumo enorme, spropositato: è pari, infatti, all’intero consumo elettrico dell’Italia in un arco di 6 mesi. E non finisce qui. Essendo, la produzione di energia, ricavata da fonti fossili, nel 2023 sono stati immessi nell’atmosfera 77 milioni di tonnellate di CO2, equivalente a quella prodotta da 16-17 milioni di autovetture. Senza contare il consumo di acqua, quantificabile in 2.237 miliardi di litri (sempre nel 2023). Ma chiudiamo in bellezza….: secondo alcuni studi, nel periodo 2016-2021 i danni provocati dalla sua produzione sono costati qualcosa come $ 12.000 MD. Credo non serva andare oltre…