Non serve andare troppo indietro nel tempo per ricordare le difficoltà registrate nella catena di approvvigionamenti (supply chain) che il mondo ha subito nel 2020 a seguito della pandemia, con i disagi che ben sappiamo: ritardi di mesi che hanno mandato in tilt l’economia, con un aumento del costo del trasporto delle merci (soprattutto via mare) che ha fatto lievitare i prezzi di molti manufatti (quasi un anticipo dell’inflazione a 2 cifre che abbiamo avuto a partire dal 2022 e da cui, a quanto pare, stiamo finalmente rientrando). Difficoltà che hanno portato molte aziende a rivedere i processi produttivi, abbandonando la delocalizzazione, il “mantra” che, a partire dagli anni 90, le aveva portate ad investire in Paesi in cui il costo della mano d’opera era enormemente inferiore, oltre al fatto che non erano pochi quelli che concedevano imponenti agevolazioni fiscali pur di creare posti di lavoro e far crescere le loro economie. Ecco, quindi, che da circa 3 anni stiamo vivendo il fenomeno inverso: oggi si parla di reshoring o, in alcuni casi, di nearshoring, intendendo con questi termini il rientro delle attività produttive nei Paesi dove hanno sede le varie aziende o, al limite, nei Paesi limitrofi.
Se così non fosse, probabilmente in queste settimane vivremmo nuovamente l’incubo di nuovi blocchi e clamorosi ritardi nel trasporto delle merci. La minaccia terroristica degli Houthi, infatti, “miete” ogni giorno nuove “vittime” (per fortuna non in senso anagrafico), spingendo molti operatori marittimi a cautelarsi modificando le rotte. Si possono ben immaginare le conseguenze: tempi più lunghi nella consegna delle merci (almeno una decina di giorni in più), costi di trasporto molto superiori, dati dai maggiori costi per l’uso di carburante (secondo qualche analista circa $ 1ML in più per le grandi navi porta-container) oltre che i maggiori oneri assicurativi (per l’aumento sia del rischio che dell’area geografica interessata). Da qui l’accelerazione dell’operazione Prosperity Guardian, “titolo” che ben definisce il contesto e le motivazioni che hanno spinto molti Paesi (oltre agli Usa, anche Gran Bretagna, Francia, Italia, Norvegia oltre a diversi altri) a dar vita ad una nuova alleanza per garantire il transito delle navi nel Mar Rosso. Rimangono, peraltro, ancora da definire molti aspetti, dai tempi in cui l’azione entrerà in vigore e, tema forse ancora più importante, le sue modalità di attuazione, vale a dire fino a che punto le navi militari schierate in quell’area potranno intervenire e con quali armi.
Nell’attesa, cresce il numero delle società che lanciano “alert” in merito alle rinnovate difficoltà logistiche, con alcuni nomi noti (per esempio Electrolux e Ikea) che iniziano ad avvertire della possibile difficoltà nel reperimento di alcuni prodotti. Il dato certo, ad oggi, è che 2 dei maggiori operatori marittimi al mondo (la danese Maersk e la tedesca Hapag-Lloyd) hanno deciso, nei giorni scorsi, di interdire alle loro navi l’attraversamento del Mar Rosso e obbligandole a circumnavigare l’Africa.
Spiragli si sereno, invece, per quanto riguarda il Patto di stabilità. Infatti, dopo un incontro bilaterale tra i Ministri delle Finanze di Francia e Germania (a conferma che “uno non vale uno”….), si da per raggiunto un “punto di sintesi” che mette d’accordo tutti, compresi quei Paesi, come il nostro, con i conti “meno in ordine” e per i quali il rientro nei nuovi parametri può risultare ben più difficile e lento. Già oggi, quindi, in concomitanza della nuova riunione, in videoconferenza, dei Ministri Ecofin, potrebbe essere annunciato l’accordo che sancisce la riforma del Patto, anche se, essendo prevista l’unanimità, qualche sorpresa potrebbe sempre arrivare.
Rimane, per quanto ci riguarda, ancora il MES, vera “spina nel fianco” per ogni governo che, in questi anni, si è succeduto, indipendentemente dal suo “colore politico”. Oramai non fa più notizia apprendere che, per l’ennesima volta, è stata rinviata la discussione parlamentare, anche se giovedì se ne discuterà nella Commissione parlamentare.
Nuova seduta di rialzi ieri a Wall Street. Il Dow Jones è salito dello 0,68%, il Nasdaq dello 0,49%, lo S&P 500 dello 0,6%, avvicinandosi ancor di più ai massimi di sempre (manca circa lo 0,6%).
Questa mattina, a Tokyo, il Nikkei non vuole essere da meno, con un rialzo dell’1.37%, dopo la decisione di ieri della Banca Centrale di lasciare le cose invariate.
Bene anche l’Hang Seng di Hong Kong, anche se si è allontanato dai massimi di giornata (+ 0,29% in questi minuti).
In arretramento, invece, Shanghai, che lascia sul terreno oltre l’1%.
Positivo, a Seul, il Kospi, in rialzo di oltre l’1,7%.
Futures frazionalmente sopra la parità.
Nuovo rialzo del petrolio, con il WTI sopra i $ 74 (74,26 questa mattina, + 0,34%).
Gas naturale Usa + 3,33%, a $ 2,579.
Oro in leggera crescita, a $ 2.056 (+ 0,14%).
Spread ancora già, a 158 bp. BTP al 3,63%, minimo dal dicembre 2022.
Bund al 2,01%.
Treasury 3,91%, in ribasso rispetto al giorno precedente.
In leggero rafforzamento l’€, con €/$ a 1,096.
Bitcoin sempre “in quota”, vicino ai $ 43.000 (42.828).
Ps: da un’emergenza all’altra. Ieri si faceva riferimento a quella demografica, con la popolazione italiana in pauroso declino. Oggi parliamo di quella climatica: le previsioni metereologiche ci dicono che, durante le festività natalizie, lo zero termico si toccherà, sulle Alpi, intorno ai 3.500 mt (pare che ieri pomeriggio al Sestriere, a mt 2.000 di quota, ci fossero 14°). Insomma, se c’è una cosa che non troveremo sotto l’albero quest’anno, sarà la neve. Non propriamente una bella notizia (non solo per il turismo e gli appassionati di sci)…