La giornata di ieri era importante in quanto avremmo avuto conferma dell’accettazione o meno, da parte della comunità finanziaria internazionale, del piano di salvataggio messo in atto dalle autorità governative e monetarie svizzere, insieme al “cavaliere bianco” UBS, nei confronti di Credit Suisse.
Dalla fusione delle 2 principali banche svizzere, che dovrà avvenire entro l’anno in corso, nasce un colosso che controlla tra il 60 e il 65% dell’attività bancaria elvetica, con attivi per circa 1.650 MD (il doppio del PIL della Svizzera, pari a $ 800 MD nel 2021) e asset in gestione pari a circa 6 volte il valore dell’economia del Paese. Senza contare i 120.000 dipendenti (72.000 q uelli di UBS, più gli oltre 50.000 del Credit Suisse, anche se si parla di circa 10.000 licenziamenti).
Un’operazione che ha avuto il pregio senza dubbio della rapidità, che ha consentito ai mercati, dopo un avvio di contrattazioni molto nervoso, di chiudere in positivo, che ha visto il settore bancario (se si escludono alcune banche americane) essere il migliore di giornata.
Eppure, come era prevedibile, non tutto appare così lineare e trasparente, con alcuni aspetti che, come era prevedibile, non convincono sino in fondo.
Innanzitutto, da che mondo è mondo, operazioni di tale portata devono essere approvate dall’assemblea degli azionisti. Cosa che, evidentemente, richiederebbe tempo: che questa volta, con altrettanta evidenza, non c’era, a meno che non si volesse vedere “l’effetto che fa” sui mercati il non prendere decisioni. Fatto sta che la volontà di chi partecipava al capitale (non solo della banca salvata, ma anche della “salvatrice”) non è stata minimamente presa in considerazione.
C’è poi il tema della “posizione dominante”. In ogni sistema regolamentato degno di questo nome, esiste un “regolatore” (l’antitrust) che deve verificare che venga salvaguardato il buon funzionamento dello stesso, evitando che si creino situazioni di squilibrio e di concentrazioni eccessive. Il caso UBS-Credit
Suisse è uno di questi, viste le dimensioni del gruppo che ne è derivato. Anche in questo caso la risposta è stata che in nome della “stabilità finanziaria” il problema si può considerare superato.
Sulla valorizzazione si è detto. L’offerta di UBS, avallata dalle autorità, è stata molto inferiore al valore della capitalizzazione del Credit Suisse alla giornata di venerdì (3 MD di franchi svizzeri vso un valore di 7.6MD: il 40%, pari a 0,76 per azione, per un valore di scambio di 1 azione UBS vso 22 di Credit Suisse – l’operazione avviene “carta contro carta” e quindi senza esborso di denaro da parte dell’acquirente). Un elemento che ha fatto nascere più di qualche dubbio sull’effettiva portata delle difficoltà dell’Istituto di Zurigo.
Ma l’elemento che più ha allarmato il mercato, facendo nascere più di un dubbio, è l’azzeramento dei bond “ibridi” At1, quelli che non condono della garanzia dell’emittente. Una decisione che, seppur presa nel rispetto della normativa svizzera (diversa da quella in uso nei Paesi UE), ha lasciato piuttosto interdetti non solo i possessori dei titoli (il cui valore “facciale” era pari a € 16MD), ma anche gli investitori.
In tutti i Paesi UE (ma anche in altri), in casi del genere ci si rivale prima di tutto sugli strumenti di capitale primario (Cet1, in sostanza le azioni), che sono i primi ad assorbire le perdite. Solo dopo il loro totale utilizzo si passa agli altri strumenti (in prima battuta le obbligazioni At1). In questo caso, invece, appellandosi, appunto, alla normativa locale, l’ordine è stato sovvertito: azzeramento dei bond, ristoro, anche se parziale, degli azionisti (per dire, l’azionista principale, la Saudi National Bank, ha comunicato di “averci rimesso”, rispetto ai valori di carico all’atto dell’aumento di capitale da 4MD oltre l’80% del proprio investimento). Mai, che si ricordi, era capitata una cosa del genere, tant’è vero che stuoli di studi legali sono già all’opera per valutare ricorsi a tutela dei portatori dei titoli obbligazionari in questione (per lo più investitori istituzionali).
Come previsto, ieri il mercato, mentre sul fronte equity le quotazioni hanno retto, con chiusure addirittura positive, ha penalizzato invece quel comparto, che ha visto titoli analoghi emessi da grandi banche (Deutsche Bank, HSBC, BNP Paribas) perdere circa il 10%.
La cosa che forse appare più nitidamente è che ad aver fatto “un affare” è UBS, che si è portata a casa a prezzi di saldo una realtà il cui valore è ben superiore, come si può intuire dagli attivi e dagli asset in gestione, seppur ci potranno essere code per quanto riguarda alcuni aspetti (vedi appunto i bond At1); per non parlare delle “garanzie” ricevute a copertura di eventuali perdite (sino ad un ammontare di 9MD) derivanti dall’integrazione.
Nella notte sono arrivati segnali confortanti dai mercati asiatici.
Chiusa per festività la borsa di Tokyo, i principali indici si apprestano a chiudere in territorio positivo: si va dal + 0,64% di Shanghai, al + 1,43% di Hong Kong al + 0,40% di Seul.
Futures positivi ovunque, con rialzi maggiori in Europa (circa + 0,7%), mentre negli Usa Wall Street per ora oscilla intorno al + 0,30%.
Nuovamente debole il petrolio: dopo i rialzi di ieri, questa mattina cede l’1,11%, a $ 67,14.
Gas naturale Usa che si avvicina a $ 2 (2,22, – 0,31%).
Gas europeo sotto i 40€ (39,5), in caduta di oltre il 10%.
Oro che “torna nei ranghi”, sotto i $ 2.000 (1.980, questa mattina in calo dello 0,23%).
Spread a 181,9, per un rendimento del BTP appena sotto il 4% (3,99%).
Bund che si muove intorno al 2,15%.
Treasury Usa al 3,50%.
€/$ a 1,071, con l’€ in rafforzamento, a conferma di una situazione più tranquilla.
Continuano i movimenti sul bitcoin, sempre in prossimità dei $ 28.000, per quanto questa mattina in calo.
Ps: quello che fino a poco tempo fa erano sensazioni, diventano realtà. Nel 2022 le nascite, nel nostro Paese, sono scese sotti le 400.000 (392.598), nuovo record negativo. Dall’altra parte i decessi hanno superato le 700.000 unità (713.499), con un saldo negativo di € 320.901. In 3 anni è come se fosse scomparsa la popolazione di una città come Napoli. Difficile pensare ad una crescita senza uno sviluppo demografico. Questo, proiettato nel tempo, il vero problema dell’Italia.