Il Word economic forum in corso a Davos indubbiamente ha il vantaggio di essere una vetrina di grande visibilità: vede la partecipazione dei rappresentanti di circa 2/3 delle nazioni del mondo e un esercito di economisti e “addetti ai lavori” (discorso che per noi conta un po’ meno, visto che in rappresentanza del nostro Governo è presente unicamente il Ministro della Pubblica Istruzione Valditara, di certo non un grande esperto di vicende finanziarie).
La sequenza di interventi e di dibattiti (siamo arrivati al 3° giorno, e non è ancora finita), peraltro, sembra funzionale a dare visibilità a tutti piuttosto che a lasciare spazio a contenuti che possono dare un indirizzo nuovo alle varie politiche economiche, oltre che a ribadire la leadership di un Paese o la conferma di decisioni già prese (vedi l’intervento di ieri di Christine Lagarde in merito alla politica del “rigore” attuato dalla BCE, decisa a non “mollare la presa” sino a quando l’inflazione non sarà rientrata al “target” del 2%).
Un palcoscenico, dunque, su cui tutti vogliono dimostrare di non essere secondi a nessuno.
Possono leggersi in questo modo le dichiarazioni nei giorni scorsi di Ursula von der Leyen, ribadite ieri dal Cancelliere Sholz e dal Commissario europeo all’economia, il nostro Paolo Gentiloni, in merito al piano europeo (denominato dalla Presidente von der Leyen Clean Tech Act – Net Zero Industry Act) in risposta all’Inflaction Reduction Act (IRA, quasi un “nomen omen”) di Washington da $ 370 MD per favorire un nuovo ecosistema industriale.
Già l’Europa si trova, di fatto, a dover “inseguire” gli USA sul tema delle politiche monetarie, con la BCE a ruota della FED, da tempo un passo avanti per quanto riguarda la lotta all’inflazione (pur in ritardo, la Banca americana si è mossa prima di quella europea: non a caso oltreoceano la corsa dei prezzi a dicembre era intorno al 7% mentre da noi si viaggia ancora vicini al 10%).
La “battaglia” ora si né spostata anche sulle politiche fiscali, rientrando in questa definizione gli aiuti “di Stato” a favore di imprese e famiglie. I due “blocchi”, peraltro, si trovano in condizioni ben diverse: ben più semplice procedere per l’Amministrazione Biden, seppur abbia perso, con le elezioni di mid-term di novembre, il controllo della camera, se non altro per un “portafoglio” ben più capiente. Ben più semplice, per il Governo americano, finanziarsi: basta aumentare un poco il debito pubblico (già oltre il $ 30.000, il 135% del PIL) e il gioco è fatto. Diverse le cose a Bruxelles: mettere d’accordo 27 paesi con situazioni tra loro ben diverse non è opera che si risolve in 2 giorni. Senza contare differenze “procedurali” sostanziali e una “cassa” piuttosto limitata. Al di là di una visione comune, infatti, poi rimane il nodo, fondamentale, delle risorse: dove reperire i capitali necessari per finanziare un piano così ambizioso. E cominciano i “giochi di prestigio”: c’è chi vorrebbe ritagliarli dai fondi comunitari assegnati al piano Next Generation EU-PNRR, dove sarebbero disponibili € 240 MD che scadono il prossimo agosto e che, per circa 100-150 MD potrebbero rimanere inutilizzati. Altra soluzione consisterebbe nel coinvolgimento della BEI, la Banca Europea degli Investimenti. In ultimo ci sarebbe la possibilità di fare intervenire l’European Stability Mechanism, meglio noto, da noi, come MES (e come tale non troppo amato).
Insomma, tradurre in “opere” parole che sembrano, allo stato attuale, quasi proclami, non sembra opera così rapida e priva di insidie (in considerazione anche dei diversi punti di vista, per esempio, di Spagna e Italia, che accusano la UE di aver favorito, con gli aiuti pubblici iniziati con la guerra in Ucraina, in modo smaccato in primis la Germania, che avrebbe ricevuto quasi la metà dei 570 MD sin qui erogati, e in secondo luogo la Francia, che si è vista ricevere circa il 30%, mentre agli altri Paesi sono rimaste le “briciole”).
Ieri chiusura in “rosso” per i mercati USA, penalizzati, dopo una partenza positiva, dai dati sulla produzione industriale e sulle vendite, entrambi inferiori alle attese. Ragion per cui il Dow Jones è arretrato dell’1,81% e il Nasdaq dell’1,27%, mentre lo S&P 500 è sceso dell’1,6%. Non sembrano particolarmente turbati gli indici asiatici: Shanghai cresce dello 0,56%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng è in leggero arretramento. Ben maggiore la perdita di Tokyo, dove il Nikkei (reduce, peraltro, dalla galoppata di ieri) cede l’1,44%. In rialzo Seul e, in India, Mumbai, entrambe intorno al + 0,3%.
Futures al momento deboli su tutte le piazze.
Dopo giorni di rialzo, scivola leggermente il petrolio, con il WTI che si porta a $ 79,10 (- 1%).
Nuovo calo per il gas naturale Usa, a $ 3,294 (- 0,72%).
Torna sopra i 60€ quello allo snodo di Amsterdam (61,25 per megawattora).
Leggera crescita per l’oro, a $ 1.911 (+ 0,16%).
Spread a 173 bp (era a 211 ad inizio anno), con il BTP al 3,72%.
Bund a circa il 2% di rendimento.
Treasury Usa al 3,32%, sui livelli dello scorso settembre.
€/$ a 1,080.
In calo le criptovalute, con il bitcoin sotto i $ 21.000 (20.805).
Ps: si avvicinano i tempi per la nuova privatizzazione di ITA: spesso non basta “cambiare” nome per rinascere a nuova vita. Ormai la strada sembra segnata, con Lufthansa oramai, dopo il passo indietro di Air France-KLM, rimasta unica contendente. Sul piatto circa € 300 ML (la compagnia tedesca propone 250ML, il Tesoro ne richiede 350) per il controllo del 40%, la percentuale a cui vorrebbe fermarsi il vettore teutonico, mentre Roma vorrebbe cedere il 45%). E pensare che circa 15 anni fa il Governo rifiutò un’offerta, da parte di Air France, di circa € 2 MD ritenendola non ragionevole…