Giacomo Leopardi probabilmente è colui che meglio ha saputo trasmettere quanto “l’attesa” possa influenzare gli umori e i comportamenti degli individui: il suo Sabato del villaggio può essere, infatti, il manifesto delle aspettative umane.
Ancora una volta i mercati non si sottraggono a questa regola. Ne abbiamo avuto riprova ieri sera: non hanno fatto un piega alla notizia del rialzo dello 0,75% comunicato dalla FED, mentre hanno reagito (male) sulle “attese” emerse dalle parole di Powell. Che, a dire il vero, ci ha messo del suo, confermando come sia importante “saper comunicare” nel modo corretto, cosa evidentemente non così semplice e scontata, se periodicamente persone che dovrebbero fare della comunicazione una delle loro virtù proprio su questo aspetto incespicano.
Che la FED potesse optare per il 4° rialzo consecutivo di quelle percentuali era dato quasi per scontato, anche se si erano aperti spiragli per un rialzo più modesto (0,50%). Infatti così è stato, arrivando, quindi, come previsto, al 3,75%/4%, il livello più alto dal 2008. Tanto che, appena emesso il comunicato stampa, gli indici americani, fino a quel momento (erano circa le 19,00 italiane) piuttosto “svogliati”, avevano invertito la rotta, intraprendendo la strada del recupero. Recupero bruscamente interrotto nel momento in cui il Presidente della FED ha iniziato a parlare.
Un discorso, il suo, in cui è sembrato non avere una “traiettoria” precisa, quasi a volersi tenere le mani “più libere” possibili. E quindi, se da una parte ha detto che “ad un certo punto sarà appropriato iniziare a rallentare il ritmo dei rialzi”, dall’altra ha pensato bene di non dare un “orizzonte” temporale in cui ciò può avvenire. Come, argomentando sulla politica monetaria della Banca Centrale, ha dichiarato che deve essere “sufficientemente” restrittiva per contribuire a riportare l’inflazione entro l’obiettivo target del 2%, non dando, quindi, un “ordine di grandezza”, ma lasciando al mercato dare una “dimensione” al “sufficientemente”. Interpretazione che non si è fatta attendere, posizionando “l’asticella” del rialzo al 5,10% nel 2023, quindi leggermente sopra il livello precedente (5%). Ovviamente le scelte future dipenderanno dai “soliti” fattori: la capacità di contenere l’aumento dei prezzi (a settembre negli USA arrivato al + 8,2%) e le dimensioni del rallentamento economico che, come ha ammesso lo stesso Powell, comincia ad intravedersi sullo sfondo. Ormai, parole del Presidente FED, si è entrati in “territorio restrittivo”, e i passi futuri saranno determinati sulla base dei ritardi con cui la politica monetaria agisce. Come dire: siamo consapevoli che le decisioni di oggi non porteranno risultati domani mattina, ma dopo domani. Un po’ come i medicinali “a lento rilascio”, i cui benefici non sono immediati.
La lettura che i mercati danno, pertanto, è che la strada possa essere un po’ più lunga di quanto fino ad oggi ritenuto, con un livello di tassi non solo leggermente più alto (5,10 vso 5%), ma anche per un periodo maggiore, prima che la “curva” possa invertirsi. Ma, se oggi (ieri) a prevalere sono state le preoccupazioni, non è detto che nel prossimo futuro le cose non possano capovolgersi: il 10 novembre e il 13 dicembre (prima quindi del prossimo meeting FED previsto per il 14 dicembre) usciranno i prossimi dati sull’inflazione USA, oltre che i nuovi dati sul lavoro. E già li si potrà comprendere se lo scenario va nella direzione giusta.
Come detto, la reazione del mercato USA alla conferenza stampa di Powell non è stata delle migliori: a “pagar dazio” più di tutti, come succede in occasioni del genere, il mercato tecnologico, con il Nasdaq in calo del 3,39%. Un po’ meglio il Dow Jones (- 1,55%), mentre lo S&P ha perso il 2,50%.
Questa mattina i mercati asiatici sembrano procedere con una certa indifferenza rispetto alle chiusure americane: sia Tokyo che Shanghai, infatti, si muovono in territorio frazionalmente negativo. Ancora negativa, invece, Hong Kong, che perde quasi il 3%, preoccupata per la riconferma di linee guida intransigenti nella lotta al Covid.
Futures al momento sulla parità a Wall Street, mentre in Europa “accusano il colpo” delle dichiarazioni di Powell, con cali vicini all’1%: per “analogia” pensano che la BCE si adeguerà alla FED, costretta com’è a “inseguirla” su quel territorio (anche per “aiutare” l’€, la cui debolezza equivale ad un’inflazione importata, ultima cosa di cui l’Europa ha bisogno).
In calo il petrolio, con il WTI a $ 88,90 (- 1,32%).
Gas naturale Usa a $ 6,06, – 3,48%.
Oro ancora in discesa, a $ 1.632,70, – 1,14%, seppur pare che le Banche Centrali di molti Paesi ne abbiano fatto incetta negli ultimi mesi.
Spread a 217 bp, con i BTP vicini al 4,20%.
Stabili i Treasury, al 4,10%.
€/$ 0,9785, con il $, come prevedibile, in rafforzamento verso €.
Bitcoin a $ 20.330, – 0,53%.
Ps: la recessione fa paura. Anche più di quanto, probabilmente, in realtà si manifesti. Colpiscono, quindi, ancor di più i dati sulle vendite comunicati ieri dalla Ferrari. Il 3° trimestre si è chiuso con risultati superiori alle attese, migliorando gli obiettivi, già straordinari, del 2022. Tutti i modelli vanno verso il tutto esaurito, con aumenti praticamente in tutti i continenti (solo l’area Emea rimane ferma). I ricavi sfiorano € 5 MD (4,9 MD). La marginalità? “solo” il 35%…