Uno degli aspetti da sempre più problematici dell’Europa, che sin dalla sua nascita periodicamente emerge, è l’eterogeneità dei Paesi che l’hanno promossa. Un’eterogeneità senz’altro culturale, sociale, dimensionale, ma prima ancora economica e finanziaria. Una differenza fondamentale, che periodicamente emerge (ovviamente nei momenti di maggior difficoltà) e che, se non arriva a metterne in discussione l’esistenza, senz’altro rimarca le differenze e fa nascere nuove tensioni. Non si tratta, quindi, del “solito” blocco dei Paesi “virtuosi” (in termini di bilancio) contro i Paesi “cicala”, accusati di sperperare denaro pubblico, oltre che di approfittare della solidarietà dei primi. Ma di vere e proprie contrapposizioni tra uno Stato e l’altro, con visioni evidentemente diverse su regole e valori che dovrebbero portare a quella unità di intenti alla base di qualsiasi confederazione tra Paesi e regioni.
Quanto successo ieri ne è una evidente riprova.
La Germania, l’economia più forte della UE, seppur non stia godendo di “ottima salute”, ha deciso di varare un nuovo piano di aiuti per fronteggiare la crisi energetica del valore di ben € 200 MD (tanto per fare un confronto il nostro PNRR vale, in 5 anni, circa € 209 MD tra prestiti e sussidi), riattivando il Fondo per la stabilizzazione dell’economia varato nel 2020 per fronteggiare la pandemia. Il suo “orizzonte temporale” si spingerà sino al 2024, consentendo allo Stato di farsi carico di buona parte del caro energia che altrimenti potrebbe mettere a rischio il tessuto sociale ed economico. Un intervento che vale circa 5 punti di PIL, che, però, non è detto che verrà utilizzato, per lo meno nella sua totalità.
La decisione del Governo tedesco, che spiazza la gran parte dei Paesi membri (è nota la “battaglia” per arrivare al price cap, che vede 15 Paesi, tra cui l’Italia – ma non la Germania – farsi promotori verso la UE di una proposta per “bloccare” il prezzo del gas. Dettaglio: i requisiti imposti dai regolamenti UE sono 2: un numero minimo di Paesi facenti richiesti (15), e quindi ci siamo, in grado di rappresentare il 65% della popolazione europea. Peccato che i 15 Paesi di cui sopra si fermino al 64,35%….), è possibile grazie ai conti in ordine del Paese, preso spesso ad esempio per il suo rigore. Il rapporto debito/PIL della principale economia europea è, infatti, al 68%, nonostante le maggiori spese derivanti dalla lotta al Covid. Prima della pandemia era addirittura al 58,9%, mentre nella fase più critica della grande crisi sub-prime del 2008-2011 era arrivato al suo picco (80%…).
Senza dimenticare che proprio nelle scorse settimane il Presidente Sholtz aveva annunciato un nuovo piano di aiuti del valore di € 65 MD, sempre per combattere il caro bollette, in aggiunta ai precedenti € 30 MD. Per non parlare dei 100 MD stanziati qualche mese fa per potenziare e riorganizzare il potenziale bellico del Paese alla luce delle minacce provenienti dalla Russia. Facendo i conti, si arriva a circa € 400 MD complessivi di investimenti in 2 – 3 anni, una cifra enorme, pari a circa il 10% del PIL.
Fatte le debite proporzioni, è come se noi stanziassimo più o meno € 170 MD…con una differenza sostanziale: il nostro rapporto debito/PIL (vd Nadef presentato 2 giorni fa in Consiglio dei Ministri) è al 145,4%. Quindi altro che “strada stretta” per il futuro Governo. Il “lascito” del Governo Draghi (le ultime stime parlano di € 25 MD) sono la base da cui partire senza fare “nuovo debito” e arrivare a ulteriori sforamenti di bilancio che potrebbero minare la credibilità, faticosamente, almeno in parte, riconquistato negli ultimi18 mesi, del nostro Paese. Una caduta di credibilità che si manifesterebbe con l’allargamento dello spread, con tassi in crescita e un ulteriore aggravio della spesa per interessi, oltre che con valutazioni negative da parte delle società di rating.
Possiamo, quindi, ben capire il primo scoglio che il Governo che si sta formando dovrà affrontare: la necessità, per rassicurare i partners europei e i mercati, di destinare al Ministero dell’Economia e delle Finanze una personalità di altissimo prestigio, in grado di continuare il percorso di risanamento e tenuta sotto controllo dei conti, senza fare proclami e l’illusione di manovre espansive impossibili da attuare (Gran Bretagna docet).
Ieri altra giornata piuttosto difficile per i mercati, schiacciati dai dati macro. Negli USA le richieste di nuovi sussidi di disoccupazione sono stati inferiori alle previsioni (193.000 vso 210.000), confermando una situazione del lavoro ancora positiva. Elemento che rafforza le tesi di chi spinge per un nuovo, pesante ritocco dei tassi. In Germania, invece, l’inflazione non accenna a fermarsi, arrivando a toccare il 10% (10,9% tendenziale), la più alta da 70 anni a questa parte (era dal 1948-50 che non si vedevano aumenti dei prezzi a 2 cifre), rendendo sempre più probabile l’arrivo della recessione, con un PIL che, nel 2023, dovrebbe contrarsi dello 0,4%.
Questa mattina pesante la borsa di Tokyo, con il Nikkei in diminuzione dell’1,83%, che porta il calo settimanale a circa il 4,5%.
Sulla parità Hong Kong, mentre al momento è in leggero calo Shanghai (- 0,37%), con l’indice PMI salito inaspettatamente al 50.1 (consensus 49,6), sopra quindi la soglia di contrazione.
Futures che si muovono ovunque in territorio positivo, rimanendo però altamente volatili.
Poco mosse le materie prime, con il petrolio (WTI) a $ 81,06 (- 0,33%) e gas naturale Usa a $ 6,86, mentre quello del nodo europeo, nonostante il presunto sabotaggio dei 2 gasdotti North Stream, è sceso a € 180, in calo di oltre l’8%.
In rialzo, invece, i metalli, dopo la messa al bando, da parte della UE, di quelli estratti nelle miniere della Russia.
Spread a 248, in leggero rialzo: ieri il BTP ha toccato il 4,70% di rendimento, mentre i titoli a 5 anni sono saliti al 4,12%.
Treasury Usa al 3,79% dal 3,75% del giorno prima.
Continua il faticoso recupero della moneta unica: questa mattina troviamo infatti l’€/$ a 0,9797.
Stabile sui valori di ieri il bitcoin, a $ 19.440.
Ps: ieri primo giorno di quotazione, alla borsa di Francoforte, di Porsche. Al suo debutto, il marchio sportivo ha chiuso la giornata in leggera crescita, nonostante la caduta dei marcati. La capitalizzazione si è attestata a € 78,5MD circa, una cifra enorme: si pensi che Volkswagen, uno dei colossi mondiali dell’automotive, valeva ieri circa € 80 MD (da noi, la Ferrari vale circa € 36 MD e Stellantis, che racchiude i marchi Fiat e Peugeot, circa 38).