Anche in Europa si avvicina sempre di la fine del “denaro facile”.
La conferma puntuale è arrivata non più tardi di ieri da parte della Presidente della BCE Christine Lagarde, che durante le celebrazioni per il trentesimo anniversario della Banca centrale di Slovenia ha dichiarato che, non appena sarà terminato il piano di acquisto APP (vd la nota di ieri), arriverà il primo rialzo dei tassi d’interesse.
Due le ipotesi: o un duplice rialzo dello 0,25% (uno a luglio, l’altro a settembre) oppure un unico aumento (0,50%) a settembre. Il Piano di acquisti dovrebbe concludersi a fine giugno; in questo caso il rialzo partirebbe a luglio. Se invece si dovesse protrarre anche per il mese di luglio, ecco che il ritocco dei tassi slitterebbe a settembre.
La Banca Centrale ha dismesso, quindi, l’atteggiamento da “colomba”, vestendosi da “falco” e allineandosi, quindi, ai Paesi più rigorosi: non più tardi di un paio di giorni fa, il Governatore della Bundesbank aveva lasciato intendere come oramai il cambio di passo fosse improcrastinabile. D’altronde è la stessa Lagarde ad affermare che le aspettative sull’inflazione sono superiori al 2%, costringendo l’organismo centrale ad intervenire. E, per rimanere sempre in Europa, notizie non buone sembrano arrivare dalla Germania, che, secondo alcuni economisti, si starebbe pericolosamente avvicinando al “terreno minato” della stagflazione, con l’inflazione a livelli mai toccati negli ultimi 40 anni e il ciclo economico in rapido logoramento.
Complice la forza del $ (da qualche tempo l’€/$ si “aggira” intorno all’1,05), da più parti arrivano confronti con la situazione verificatasi 11 anni, che portò al rischio di “deflagrazione” della moneta unica. Le analogie, però, di fatto si fermano qui. Quella fu una crisi originata dallo scoppio della bolla immobiliare che coinvolse il sistema bancario, che fu costretto ad enormi ricapitalizzazioni con soldi pubblici.
Oggi la crisi arriva da “shock reali”, quali inflazione, guerra, costo dell’energia, crisi del commercio internazionale, che, se dovessero durare e non essere adeguatamente contrastati, potrebbero portare ad una nuova crisi finanziaria.
Grandi, peraltro, al momento sono le differenze tra i 2 momenti storici: oggi le imprese, nella stragrande maggioranza dei casi, non solo non sono indebitate, ma godono di una grande liquidità. Le banche, soprattutto, sono adeguatamente capitalizzate e meno esposte al “rischio credito”. Di contro sono di molto aumentati, a causa della pandemia, i debiti pubblici, con molti Paesi che si trovano in condizioni ben peggiori rispetto a 11 anni fa: basti pensare alla Francia, che oggi ha un rapporto debito/PIL superiore a quello di Portogallo e Irlanda, due Paesi che all’epoca dovettero far ricorso ai prestiti condizionati (il tanto vituperato MES – Meccanismo Europeo di stabilità – che presuppone la “presenza” periodica della “troika” (BCE, Commissione UE, Fondo Monetario Internazionale) per controllare il rispetto dei bilanci statali). All’epoca la crisi fu scongiurata dai massicci interventi della Banca Centrale, mentre oggi l’organismo monetario europeo si trova esattamente nella condizione opposta, quella del rigore. Dovranno quindi essere soprattutto i singoli Paesi ad adottare politiche economiche in grado di sostenere la crescita, anche se la BCE sta iniziando a lavorare sull’introduzione di uno “scudo” degli spread per evitare la così detta “frammentazione”, vale a dire “calmierare” eventuali eccessi del mercato.
Ieri, intanto, i dati sull’inflazione USA hanno parzialmente deluso gli analisti. Scendendo all’8,3% anziché al previsto 8,1%. Su base mensile i prezzi sono saliti dello 0,3% verso l’atteso 0,2%. Tutti elementi che hanno allontanato l’ipotesi che la FED possa, al momento, rivedere la propria politica di irrigidimento, anzi, facendo tornare di attualità l’idea che a giugno il rialzo dei tassi possa essere di 0,75% e non di 0,50%, e spinto gli operatori ad alleggerire ulteriormente le posizioni azionarie, con il Nasdaq che, dopo una giornata ad altissima volatilità, ha chiuso in ribasso del 3,06% (Dow Jones – 1,02%).
Come prevedibile, giornata di cali per i mercati asiatici. Si salva parzialmente Shanghai, per il momento appena sotto la parità, mentre Nikkei e Hong Kong fanno segnare ribassi intorno all’1,80%.
Appena negativi i futures USA, mentre quelli europei aggiornano le quotazioni, adeguandole ai cali newyorkesi di ieri sera.
In generalizzato calo le materie prime, con il petrolio che arretra di circa 1,50% (WTI a $ 104,31) e il gas naturale a $ 7,548 (- 1,20%).
Ancora debole l’oro, con le quotazioni che non si “schiodano” dall’area di $ 1.850 ($ 1.853,70).
Giornata di “gloria” per lo spread, sceso ieri sino ai 189 bp. Questa mattina riapre le contrattazioni da 191 bp, un livello che ha portato il rendimento del BTP sotto il 3% (2,90 circa). Treasury al 2,91% dal 2,97% di ieri: l’identico rendimento tra i nostri BTP e gli analoghi titoli USA, peraltro, è solo pura coincidenza…
€/$ stabile, a 1,0511.
Non si ferma la caduta del bitcoin: questa mattina perde un ulteriore 10%, portando le quotazioni ben sotto la soglia dei $ 30.000 (27.140), a confermo del momento difficile che stanno attraversando tutte le criptovalute.
Ps: nei mesi scorsi Apple si stava apprestando a superare l’incredibile cifra di $ 3.000 MD di capitalizzazione (il valore del nostro debito pubblico, anzi, un po’ di più al cambio attuale €/$), confermandosi la società a maggior capitalizzazione al mondo. Oggi le cose sono un po’ cambiate. Non solo si è allontanata da quel traguardo (ai prezzi di ieri capitalizza circa $ 2.370 MD), ma è stata sopravanzata da un’altra società. Saudi Aramco, la più grande azienda petrolifera al mondo (e chi se no) ieri ha raggiunto i $ 2.430 MD, trascinata dai prezzi dell’energia.