Forte era stato, mercoledì, lo stupore nel vedere i listini azionari americani reagire in maniera positiva, e non di poco, al più forte rialzo dei tassi USA (+ 0,50%) degli ultimi 22 anni. Un segnale chiaro, quasi una sorta di “whatever it takes” al contrario, di come la FED voglia affrontare con decisione la lotta all’inflazione: già si da per certo un nuovo intervento nella stessa misura a giugno, a cui ne seguiranno altri, in modo da portare il livello dei tassi USA, entro la fine dell’anno, in un “range” tra il 2.50 e il 2,75% (oggi 0,75/1%). Diverso l’approccio della BCE, più attenta, come ha dichiarato ancora ieri il Capo Economista Philipe Lane, ai dati macro che di volta in volta arriveranno, anche se appare praticamente scontato che anche da questa parte dell’Oceano stia per arrivare il momento del ritocco: diventa sempre più rischioso, oltre che, da un punto di vista economico-monetario, probabilmente errato, mantenere un divario così evidente tra l’inflazione (oggi intorno al 7%, anche se le analisi che vengono fatte sono sulle proiezioni future, che la stimano intorno al 2,5% per il 2023) e un livello di tassi ancora negativi (– 0,50%). Dopo i diffusi rialzi di 2 giorni fa (oltre alla FED, anche altri Istituti Centrali non sono stati a guardare – Islanda, Australia, India, Brasile, quindi da est ad ovest, da nord a sud del globo) ieri è stato il turno della Bank of England, arrivata, con il quarto rialzo consecutivo in pochi mesi, all’1%.
Puntuale è arrivata, ieri, la “sentenza” dei mercati.
Giornata da dimenticare sia per gli indici azionari che per i mercati obbligazionari.
Il Nasdaq (– 5%) ha subito la maggior caduta dal giugno 2020, con lo S&P in calo di oltre il 3,5%.
A spaventare gli investitori sono sempre gli stessi motivi, di fatto 3: inflazione, rischio recessione, guerra in Ucraina. Tre fattori ben distinti tra loro ma in buona parte tra loro connessi, con l’ultimo arrivato (guerra in Ucraina) che si è inserito in un cotesto macro-economico già fragile di suo (ricordiamo che l’inflazione è partita negli USA quasi 1 anno fa e, da quel momento, ha intrapreso una corsa inarrestabile e continua, di cui la FED ha avuto consapevolezza solo verso fine 2021, quando ha annunciato il “cambio di marcio”, senza peraltro, in quel momento, chiarire bene come sarebbe intervenuta). Questa discrasia temporale tra “la presa di coscienza” del problema e la decisione di intervenire la porta oggi a prendere provvedimenti più “violenti”, che probabilmente il mercato interpreta come la conferma che la situazione forse è più grave di quanto si pensi. Si aggiungano agli aspetti di cui sopra i lockdown nelle più grandi metropoli cinesi (che colpiscono oltre 400 ML di persone) e si arriva alla giornata di ieri.
A complicare ulteriormente le cose, almeno sul fronte europeo, le difficoltà da parte della UE ad assumere una linea comune sul tema dell’embargo alla Russia. Pare che finalmente un accordo con i Paesi orientali (in primis Ungheria e Slovacchia) sia stato trovato, con la possibilità per questi ultimi di avere 2 anni di tempo per affrancarsi dalle forniture russe.
In più si potrebbe andare verso la creazione di una sorta di Recovery energetico, che avrebbe una dotazione di partenza di circa € 200MD (che arriverebbero dal mancato utilizzo di parte dei fondi del Recovery Fund del piano Next Generation, la cui dotazione – € 750 MD – scenderebbe intorno ai 500-550MD, avendo i Paesi beneficiari rinunciato, per il momento, a circa € 200MD).
Gli aumenti di questi giorni stanno mettendo ulteriormente sotto “stress” gli spread ed i tassi.
Il nostro BTP decennale ieri ha “sconfinato”, portandosi, per la prima volta dal 2018, oltre il 3%. Livello analogo per il Treasury Usa (3,07%): peraltro là i tassi sono già intorno all’1% mentre da noi sono ancora a – 0,50%. Ma ben sappiamo le origini “dei nostri mali”…Il rialzo ha colpito anche il “bene rifugio” per eccellenza: il Bund tedesco, infatti, ieri è arrivato a toccare l’1,05%.
Se, come molti osservatori pensano, l’inflazione avesse toccato il picco, dal prossimo mese, se non già da questo, si potrebbe assistere ad un’inversione della tendenza. E se si andasse verso quella che viene definita l’inflazione “target” (2%-2.5%) non è detto che le dimensioni dei rialzi dei tassi possano, almeno, in parte ridimensionarsi, riportando, a quel punto, una maggior tranquillità sui mercati.
La “fuga dal rischio” di ieri questa mattina si è trasferita sui mercati asiatici, anche se in misura un po’ più contenuta e con qualche distinguo. L’indice Nikkei, per esempio, si appresta a chiudere a + 0,7% (ricordiamo però che arriva da qualche giorni di chiusura per festività); più difficile la situazione a Shanghai (- 2,10%) e, soprattutto, ad Hong Kong, forse il listino che più assomiglia al Nasdaq, che scende del 3.50%.
Futures che cercano di “rianimarsi”: li troviamo, infatti, tutti sulla parità o su livelli leggermente positivi.
Torna a scendere il VIX, dopo che ieri ha superato i 31 punti.
Petrolio sempre più in alto, dopo la notizia che gli USA vogliono ricostituire le scorte comprando oltre 60 ML di barili: WTI a $ 109, il rialzo dello 0,75%.
Leggero caro per il gas naturale, che si porta a $ 8,785 (- 0,15%).
Ripiega nuovamente l’oro, a $ 1.876.
Spread sempre nell’orbita dei 200 bp (198,6), con il BTP, come detto, al 3%.
$ che esce ancora una volta vincitore dalla giornata di ieri: questa mattina si porta a 1,051 vso €.
Caduta verticale del bitcoin, che lascia sul terreno quasi 8 punti percentuali ($ 36.458).
Ps: parte oggi, dall’Ungheria (dove si svolgeranno le prime 3 tappe) il 105° Giro d’Italia, che vedrà la partecipazione di 45 corridori italiani. Fa specie che la partenza avvenga da Visegrad, la cittadina che ha dato il nome al “patto di Visegrad”, che riunisce i Paesi (tra cui, appunto, l’Ungheria) più critici ed ostici alla UE (come dimostrano le difficoltà nel trovare un accordo sul blocco delle forniture dalla Russia).