Gli ultimi 30 anni di vita politica italiana ci hanno consegnato più di un Governo con Presidenti a forte “matrice” economica, spesso con provenienza Bankitalia. Basti pensare a Ciampi, già Governatore in Banca d’Italia e poi Primo Ministro, Ministro del Tesoro fino ad arrivare alla Presidenza della Repubblica, o a Lamberto Dini, prima Direttore Generale in Banca d’Italia, pe poi approdare in politica come Primo Ministro, e poi Ministro del Tesoro e successivamente Ministro degli Esteri. L’attuale Presidente Draghi, peraltro, sicuramente è la figura che meglio conferma quella che oramai si può definire, in mancanza di un Primo Ministro puramente politico, una tradizione.
Da sempre i nostri Governi sono noti per il numero dei Ministeri, mediamente superiore a qualsiasi altro esecutivo: in passato si distinguevano Ministri “con portafoglio” da Ministri “senza portafoglio”, ad evidenziare e rimarcare l’importanza tra uno e l’altro. Ben sappiamo come ve ne siano alcuni decisivi (Economia, Interni, Esteri, Difesa per citarne alcuni): dai nomi che occuperanno quelle caselle si può già capire il prestigio o meno di un esecutivo.
Ma quanto stiamo osservando in questi giorni ci dice che uno più di tutti può fare la differenza. Più che del Presidente del Consiglio (che tornerà ad essere, salvo imprevisti dell’ultim’ora, un politico), il nome Ministro dell’Economia e Finanze potrà fare la differenza. Da qui il pressing da parte della candidata premier su alcuni nomi in grado di rassicurare i mercati e la comunità internazionale, nomi che per forza di cose, ancora una volta, non appartengono alla politica (anche perché, visto il momento particolarmente difficile, è probabile che, ancora una volta, si debbano prendere decisioni non prettamente “populiste”: meglio che le critiche, quindi, vengano rivolte ad un tecnico che ad una parte politica, per quanto la guida del governo sia politica).
La centralità dell’economia, con tutto quello che si porta dietro, nella vita del Governo nascente, viene altresì confermata dalle inaspettate schermaglie emerse ieri in merito ai presunti ritardi nell’attuazione del PNRR da parte dell’attuale esecutivo, con il Presidente Draghi che, come sua abitudine, ha risposto con poche ma puntuali parole a chi ha formulato l’accusa: “Non ci sono ritardi nell’attuazione del PNRR. Se ce ne fossero, la Commissione (Europea) non verserebbe i soldi”. In effetti, difficile dar torto al Presidente del Consiglio: al 31/12/21 tutti i 51 obiettivi previsti erano stati raggiunti, con l’erogazione della prima tranche di aiuti da € 24,1 MD. Stessa cosa al 30/6/22, con 45 obiettivi raggiunti su 45 (altri 24,1 MD). La 3° rata (€ 21,8 MD) è prevista per il 31/12/22, con 21 dei 55 obiettivi già raggiunti. Certamente il nuovo esecutivo avrà il suo “bel da fare”, se vorrà incassare gli aiuti già scadenzati (€ 18,4 MD al 30/6/23 e € 20,7 MD al 31/12/23, rispettivamente a fronte di 27 e 69 obiettivi).
Come se non bastasse, ieri si è aggiunto “l’avvertimento” di Moody’s. La società di rating, infatti, ha espresso un giudizio piuttosto preoccupato sul nostro Paese, in cui ha confermato che siamo, in sostanza degli “osservati speciali”: laddove non fossimo in grado di portare avanti il piano di riforme che l’Europa ci chiede, le conseguenze si farebbero sentire, aggravate dal peso del debito, il vero problema dell’Italia insieme alla bassa crescita. L’insieme di questi fattori, se dovessero verificarsi, porterebbe la società di rating americana ad abbassare ulteriormente il livello del nostro debito, portandolo quasi a “rischio spazzatura”. Più che una vera e propria bocciatura, però, sembra piuttosto un “avviso ai naviganti”. Quasi a confermare i timori da parte della “business community” che dopo un esecutivo orientato “al fare” si torni alle paludi dei Governi politici, annullando quanto di buono è stato fatto negli ultimi 18 mesi. Intanto (altro messaggio…) la risposta dei mercati non si è fatta attendere, con lo spread in allargamento di oltre 29 punti, al 4,45%, il movimento più ampio, in un solo giorno, dal marzo 2020.
Ieri, dopo un avvio incerto, appesantito dalle positive notizie sui dati occupazionali USA, migliori del previsto, Wall Street ha chiuso in sostanziale parità, mentre l’Europa ha conosciuto una giornata all’impronta della negatività.
Questa mattina troviamo il Nikkei a + 0,70%, mentre scende di un modesto 0,37% Hong Kong; positivi gli altri indici asiatici (ancora chiusa per festività Shanghai).
Futures positivi, con rialzi vicini all’1% in Europa, mentre quelli USA sono di poco superiori alla parità.
Dopo la conferma del taglio della produzione da parte dei Paesi Opec+ di circa 2 ML di barili/giorno, nuovo rimbalzo del petrolio, con il WTI che si è portato vicino a $ 88 (questa mattina $ 87,65, in calo dello 0,24%).
Gas naturale Usa che torna sopra i $ 7 (7,049 nei primi scambi di giornata).
Oro a $ 1.733, + 0,62%.
Spread ancora sopra i 240 bp (241,5).
Treasury USA a 3,75%.
€/$ sempre vicino alla parità (0,991), dopo una giornata di discreta volatilià.
Bitcoin che “tiene” quota $ 20.000 (20.237).
Ps: sappiamo che uno dei maggiori problemi degli Stati Uniti è l’uso incondizionato delle armi da fuoco (si calcola che ne circolino circa 400 ML, a fronte di una popolazione complessiva di circa 320ML di abitanti…). Nel 2020 i morti per colpi di arma da fuoco sono stati, nel Paese, 45.222. Enorme l’impatto economico: si calcola che il costo degli incidenti a causa del loro uso sia pari a circa $ 557 MD (tiene della perdita del “capitale umano” e le ripercussioni a lungo termine delle sparatorie). Una cifra incredibile, pari a circa un terzo del PIL italiano.