Direttore: Alessandro Plateroti

Uno degli indicatori più evidenti per determinare la presenza o l’arrivo della recessione è quello sui consumi, in special modo di quelli definiti “discrezionali”, vale a dire tutto ciò che può essere “rinviabile”. Tanto per fare un esempio, le vendite di automobili: nei primi mesi dell’anno, dopo anni molto bui, in cui tutte le case automobilistiche hanno visto la produzione scendere drasticamente, sono invece risalite, cogliendo quasi di sorpresa gli analisti. E quindi tutto si può dire, ma non che siamo vicini ad una caduta.

Se i consumi “tengono”, ovvio che la produzione (nel caso dell’industria) va di conseguenza. Vero che, in alcuni momenti, il mantenimento dei livelli produttivi può essere determinato dalla necessità di riempire magazzini magari rimasti “a secco” di scorte, ma non sembra questa la situazione: si produce perché si consuma e non per produrre oggi ciò che domani costerebbe di più.

Seconda conseguenza, se tiene la produzione non c’è bisogno di licenziare (anche perché, nel caso si optasse per questa scelta, domani, nel momento in cui ci fosse bisogno di riassumere, probabilmente sarebbe più difficile trovare personale e, soprattutto, costerebbe di più). E quindi i livelli occupazionali rimangono alti (ai massimi negli USA, dove il tasso di disoccupazione è al 3,4%), altro elemento piuttosto importante che ci dice, per usare le parole di Jerome Powell, che “siamo ben lontani da qualunque cosa che assomigli ad una recessione”.

La terza conseguenza, sotto gli occhi di tutti, è che l’inflazione fa fatica, molta fatica, a scendere. Hanno un bel dire la Lagarde e Powell che tutti gli sforzi (delle Banche Centrali) sono per “pilotarla” verso il 2%, il “target” al raggiungimento del quale l’aumento dei prezzi assume una valenza positiva, significando una situazione economica favorevole, un clima sociale positivo, un andamento dei consumi lineare, un regime occupazionale stabile. Insomma, quello sì, almeno da un punto di vista economico, il migliore dei mondi possibili. Intanto, però, l’inflazione non solo scende, anno su anno, molto lentamente, ma addirittura, da un mese all’altro, ha ripreso a crescere.

Di fronte ad una situazione del genere, di certo i banchieri centrali non possono dire “abbiamo scherzato”, ovvero “abbiamo sbagliato le nostre previsioni”. Da qualche tempo a questa parte il nuovo paradigma è che le loro scelte saranno determinate di volta in volta dai dati sullo “stato dell’economia”, senza, cioè, programmi prefissati. Proprio ieri, il capo della FED ha detto che i dati economici sono stati più robusti di quanto anticipato, suggerendo che la soglia finale dei tassi sarà più alta di quanto anticipato in precedenza”. Rincarando poi la dose affermando che se “la totalità dei dati dovesse indicare che sono richieste strette (monetarie) più rapide, siamo pronti ad aumentare il passo dei rialzi”. Tradotto: non solo il “picco”, a questo punto, si sposta verso l’altro (dal 5,10% al 5,50% – oggi siamo, negli Usa, al 4,50-4,75% – con qualcuno che si spinge sino al 5,75%), ma probabilmente tornerà a salire la percentuale di incremento: se fino a ieri i mercati “scontavano” un rialzo, nella prossima riunione FED del 22 marzo, un ritocco dello 0,25%, ora si parla di un altro 0,50%. Il contrario di quanto si era presagito ad inizio febbraio, quando il rialzo dello 0,25% aveva aperto la porta ad un ammorbidimento della linea rigorista. Quasi un brusco risveglio per gli investitori, che infatti hanno “tirato i remi in barca”, vendendo azioni e titoli obbligazionari a brevissimo termine (e quindi provocando un rialzo dei loro rendimenti), “vittime designate” nel caso di un rinnovato rigore monetario.

Quasi certo, a questo punto, che prima la BCE (che si riunirà il 15-16 marzo) e poi la FED (21-22 marzo) alzeranno di mezzo punto i tassi di riferimento, per poi vedere, ancora una volta, “l’effetto che fa”.

Intanto si è visto l’effetto di ieri (oltre a quello di questa mattina): dopo le parole di Biden gli indici USA (già non particolarmente “motivati”, in scia alla debolezza europea) hanno preso la strada dei ribassi, chiudendo ai minimi di giornata: Nasdaq – 1,22%, Dow Jones – 1,72%, S&P 500 – 1,53%.

Questa mattina borse asiatiche a “2 velocità”: bene Tokyo, incurante dei ribassi newyorkesi, con il Nikkei a + 0,48%. Sulla parità, dopo una partenza debole, Shanghai, mentre, come spesso succede in situazioni del genere, “paga pegno” Hong Kong, dove l’Hang Seng perde oltre il 2%, probabilmente appesantito anche dalle rinnovate tensioni geo-politiche tra Cina  e Stati Uniti, su Taiwan, a seguito delle dichiarazioni del nuovo Ministro degli Esteri cinese Qin Gang, che ha detto testualmente, riferendosi alla politica estera americana,  “è come se ai Giochi Olimpici uno dei concorrenti non gareggiasse per vincere ma per fare lo sgambetto all’altro”.

I futures, almeno per il momento, non sembrano dare nuovi segnali di nervosismo, assestandosi intorno alla parità.

Dopo lo scivolone di ieri, si stabilizza il petrolio, con il WTI a $ 77,34, – 0,41%.

Andamento analogo per il gas naturale Usa, a $ 2,678 (- 0,48%).

Il rialzo dei tassi a breve penalizza l’oro, sceso a $ 1.818,80.

Spread a 183,5 bp, per un rendimento del BTP a 4,51% dal precedente 4,56%.

Bund sempre intorno al 2,73/2,75%.

Treasury al 3,98%; record, invece, per il biennale, che ieri ha toccato il 5,07%, il punto più alto dal 2007.

Le parole di Powell hanno “soffiato” sul $, spingendolo a 1,0541 verso €.

In arretramento il bitcoin, che fa segnare $ 21.983, – 0,96%.

Ps: in un’epoca dominata dai social e dai giochi elettronici, non possono che stupire i dati della Lego, forse il marchio più “identificativo” al mondo. Alla bella età di 90 anni (tanti sono gli anni di vita della società danese fondata dal capostipite Ole Kirk Christiansen) il gruppo ha comunicato ricavi in crescita del 17% a corone danesi 64,6 MD (8,7 MD in €), con l’apertura in un solo anno di ben 155 negozi a marchio Lego, portando a 904 il numero complessivo nel mondo.

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ultimo aggiornamento: 08-03-2023


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