Rashomon è forse il film più famoso del regista giapponese Akira Kurosawa. Risale al 1950 e narra la storia di un omicidio racconta da diversi testimoni, ognuno dei quali da una sua rappresentazione della realtà. Ancora oggi, a distanza di oltre 70 anni dalla sua uscita, probabilmente rimane l’esempio più noto, nell’arte cinematografica, di come ogni cosa possa essere “letta” in modo diverso, a seconda di chi la guarda. E che non esista una “verità assoluta”, ma una verità “mediata” dal vissuto e dal percepito di ogni testimone.
L’economia non fa eccezione a questa regola. Anzi, forse è il campo che più di altri si presta a diversi punti di vista.
Venerdì sono stati pubblicati i dati sull’occupazione americana, che, ancora una volta, hanno stupito di osservatori di mezzo mondo. A marzo i nuovi posti di lavoro nel settore non agricolo sono stati 303.000, ben oltre i 200.000 stimati. Il tasso di disoccupazione è tornato a scendere, facendo segnare il 3,8% dal precedente 3,9%, avvicinandosi nuovamente verso il minimo storico di 3,5%. Negli USA attualmente i disoccupati sono circa 6,4 ML, ma si da il caso che i posti di lavoro vacanti siano circa 8,7 ML: quindi ogni disoccupato ha, teoricamente, 1,36 posti a disposizione (è ovvio che la “piena occupazione” è impossibile da ottenere, in considerazione del fatto che, soprattutto in Paesi geograficamente estesi, dipende dalle profonde differenze tra un’area e l’altra, dalla specializzazione o meno richiesta, da settori in grande espansione, nei quali c’è carenza di personale, a quelli, invece, in fase di involuzione, per i quali, invece, si assiste ad un surplus di posti di lavoro, etc).
L’occasione ha nuovamente confermato le diverse scuole di pensiero.
La più positiva ha dato nuovo slancio al mercato azionario “a stelle e strisce”, permettendo ai listini americani di recuperare gran parte del terreno perso il giorno precedente, quando le affermazioni di un esponente della FED avevano “gelato” gli investitori sull’ipotesi che la Banca Centrale USA dovrebbe lasciare invariati i tassi quest’anno. Questa volta ha prevalso il “bicchiere mezzo pieno”, secondo cui, correttamente, un’economia forte non può che fare bene ai bilanci aziendali. Si fa largo l’ipotesi, quindi, di un “no landing”, con un’economia che continua a crescere oltre le ultime previsioni, allontanando non solo l’ipotesi di un “hard landing” (e quindi di una recessione), ma anche del “soft landing”, cioè la sostanziale tenuta dell’economia, anche se in leggera contrazione. Un’ipotesi che, se dovesse realizzarsi, porterebbe gli utili aziendali a crescere di circa l’11% (mentre nel caso di un “soft landing” ci si fermerebbe al + 5%). Una percentuale che permetterebbe di mantenere inalterato, di fatto, il rapporto prezzo/utili di molti titoli, se non addirittura, facendolo abbassare, cosa che potrebbe dare nuova linfa ai listini.
Di contro, ed ecco il “bicchiere mezzo vuoto”, potrebbe allontanare il momento, per la FED, in cui iniziare il taglio dei tassi. Il ragionamento di Powell è piuttosto semplice: che fretta c’è di abbassare i tassi se l’economia (americana) continua a crescere oltre le attese mentre, di contro, l’inflazione continua a scendere (o, se non scende, come nell’ultimo mese, comunque non da segni tali da far crescere la preoccupazione)? Anche perché la forza del lavoro non sta facendo “surriscaldare” i salari: la crescita oraria è stata, nell’ultimo mese, pari allo 0,3%, con un rialzo annuo del 4,1% (dal 4,3% del mese precedente). Aspetto, quest’ultimo, che in parte potrebbe dipendere da un elemento forse determinante per l’esito delle non lontane elezioni presidenziali. Si calcola che, negli ultimi 2 anni, gli USA abbiano avuto circa 7 ML di immigrati, che, in buona parte, hanno trovato un’occupazione; un’occupazione, peraltro, poco remunerata (o, per lo meno, meno remunerata rispetto a quella statunitense), che, quindi, permette di “calmierare” il costo del lavoro.
Ecco, quindi, che l’allontanarsi del momento dei “tagli” fa nuovamente crescere i rendimenti dei titoli di stato americano, che infatti si sono riavvicinati al 4,5%, oltre che al rafforzamento del $.
Una situazione un po’ diversa rispetto a quella che stiamo vivendo in Europa, dove la crescita è più lenta e faticosa (oltre che diversa tra un Paese e l’altro). Un dati di fatto che ha portato Christine Lagarde ad affermare che ormai un primo taglio (a giugno) è pressochè certo, con la BCE che giocherà “d’anticipo” sulla “cugina” americana (anche se c’è chi, come gli esperti di Invesco, che si dicono convinti che la FED taglierà comunque a giugno, con ulteriori 2 tagli a ridosso delle elezioni di novembre).
La settimana sui mercati del Pacifico si apre in modo contrastato.
Il Nikkei di Tokyo riprende la sua corsa, facendo segnare un rialzo dello 0,84%.
Positivo, anche se meno “esuberante”, l’Hang Seng di Hong Kong, che sale dello 0,21%. Segna il passo, invece, Shanghai, appesantita dai nuovi problemi del settore immobiliare, dopo la richiesta di messa in liquidazione, da parte della China Construction Bank, di Shimao, l’ennesimo sviluppatore immobiliare in crisi.
Positive le altre piazze del Far East, come Taiwan e Seul.
Da segnalare l’apertura positiva di Mumbai; se la giornata dovesse concludersi su questi livelli (+ 0,3%) andrebbe a ritoccare i nuovi massimi per la borsa indiana.
Futures al momento poco brillanti negli USA, con gli indici appena negativi. Meglio quelli europei, positivi, seppur frazionalmente.
In calo, dopo diverse sedute di continuo rialzo, il petrolio, con il WTI che scende dell’1,56% a $ 85,64.
Sorte analoga per il gas naturale Usa, scambiato a $ 1,764 (- 1,34%).
Nuovo record per l’oro, che passa di mano a $ 2.356 (+ 0,38%), dopo che la Popular Bank of China ha reso noto di aver incrementato anche nel mese di marzo, per il 17° mese consecutivo, le proprie riserve.
Spread a 138,3 bp, con il nostro BTP decennale al 3,79%.
Bund al 2,39%.
Treasury al 4,41%, massimo da novembre.
€/$ a 1,0834.
Torna a “rompere il muto” dei $ 70.000 (70.305) il bitcoin.
Ps: non è chiaro sino a che punto noi italiani siano appassionati di sport (nel senso di praticarlo). Una cosa però è certo: amiamo seguirlo. Certamente, anche lo sport ha le sue “mode”, anche se il calcio sembra quello più forte delle mode (visto che è seguito, così pare, dal 53% degli italiani). Così non è, invece, per il tennis: pesa, evidentemente, “l’effetto” Sinner, visto che si è passati, nel giro di pochi anni, dal 21% al 39% di persone che si dichiarano “appassionate” di questo sport. Mentre più o meno invariati rimangono altre discipline (F1 38%, volley 31%, basket 22%, nuoto 29%, atletica 31%, etc).