Sino a circa 18 mesi fa dalle principali Banche Centrali arrivavano dichiarazioni tranquillizzanti sull’inflazione: la gran parte dei Governatori, a partire da Powell, non perdevano occasione per dirci che sarebbe stata “temporanea” e che le sue conseguenze sarebbero state passeggere. Di conseguenza, nessuno, o quasi, si è fatto trovare pronto nel momento in cui ci si è resi conto che le cose non stavano propriamente così, costringendo gli organismi monetari a correre ai ripari. Ben sapendo che, in questo modo, ci siamo “bruciati” il fattore tempo, determinante per rendere più efficaci i provvedimenti. Un po’ come accade con le previsioni meteo: se le attese sono per il cielo sereno e poi arriva una bomba d’acqua, i guai sono ben maggiori (e in Italia, purtroppo, lo sappiamo bene).
In queste settimane, per non dire mesi, una cosa più o meno analoga accade sul tema recessione: sono in molti quelli che la danno per certa, analizzando i numeri, studiando i dati macro, mettendo a confronto le serie storiche, facendo parallelismi con il passato.
Poi succede, come nella giornata di ieri, che apprendiamo come negli USA i nuovi occupati sono stati, un mese sull’altro, 497.000, più del doppio rispetto ad attese per non più di 228.000.
Parlare di recessione, per quanto il rischio non sia cancellato, diventa, almeno in un’ottica di breve, piuttosto difficile. Uno dei primi segnali, evidentemente, è il calo dei livelli occupazionali, che si collega alle scorte che aumentano, con le merci che rimangono ferme nei magazzini a fronte di una domanda e di consumi in calo. Vero è che circa la metà dei nuovi posti deriva dal settore “leisure and hospitality”, mentre quello manufatturiero è in calo (fermo restando che il “peso” di quest’ultimo sul PIL ormai è inferiore a quello dei servizi). Ma i numeri, al momento, sono certamente meno negativi rispetto alle previsioni degli analisti. Una nuova conferma sullo stato di salute dell’economia americana, peraltro, arriverà oggi, quando saranno resi noti i dati sul numero dei disoccupati e sulle nuove richieste settimanali dei sussidi di disoccupazione.
Paradosso vuole che a fronte dell’apparente buon andamento economico degli Stati Uniti (il PIL “tendenziale” per il 2023 proprio nei giorni scorsi è stato rivisto al rialzo, fissandolo al 2%) i mercati abbiano avuto una brusca frenata, con prezzi in vertiginosa discesa in Europa, mentre a Wall Street, dopo un avvio piuttosto difficile, sul finale di seduta si è assistito ad un recupero, che nel caso del Nasdaq ha dimezzato le perdite. Frenata che non ha riguardato solo il mercato azionario, ma che ha colpito anche i prezzi dei bond, facendo balzare i rendimenti.
Un buono stato di salute dell’economia quasi sempre è un ostacolo alla discesa dei prezzi (anzi, il più delle volte può portare ad un loro “surriscaldamento”: buoni livelli di occupazioni giustificano stipendi in crescita, fattore determinante per sostenere i consumi). Esattamente quello che le Banche Centrali non vogliono, impegnate come sono nel combattere l’inflazione. Già nei giorni scorsi si sono moltiplicati i segnali che danno per certi nuovi rialzi dei tassi a fine luglio. Ieri, evidentemente, si sono aggiunti nuovi motivi alle convinzioni di chi ritiene che quello di luglio non sarà l’ultimo aumento, aprendo a scenari che potrebbero confermare il protrarsi del rigore.
Sulla giornata di ieri, comunque, un certo peso potrebbe averlo giocato che si è appena concluso un 1° semestre assolutamente positivo per la stragrande maggioranza dei mercati: molti investitori, quindi, forti dei recenti guadagni accumulati, hanno preferito alleggerire e osservare quello che potrebbe accadere in questi giorni.
Sullo sfondo il “dilemma” è sempre lo stesso: continuare con il rigore, rischiando di strozzare l’economia e creare milioni di disoccupati o lasciare spazio alla crescita e, con lei, ai prezzi, annullando, di fatto, i sacrifici fatti e i provvedimenti sin qui adottati?
La prima settimana del nuovo semestre si chiude con i mercati del Pacifico, come prevedibile, in calo.
Anche oggi Shanghai è la piazza migliore, appena sotto la parità (– 0,15%). A Tokyo il Nikkei perde circa l’1,15%, portando il calo settimanale a circa il 2%. A Hong Kong l’Hang Seng è a – 0,86%.
Segnali di ripresa dai futures: positivi quelli europei, mentre a Wall Street sono appena al di sotto della pari.
In ripresa il petrolio, con il WTI a $ 72,15 (+ 0,39%).
Gas naturale Usa a $ 2,641 (+ 1,07%).
Oro a $ 1.921 (+ 0,23%).
Giornata difficile, ieri, per il mercato obbligazionario, con spread in allargamento ovunque e prezzi in discesa, con conseguente forte rialzo dei rendimenti. Il biennale Usa, per esempio, ieri ha superato il 5% (5,02), facendo segnare il massimo dal 2007, con il treasury decennale al 4%.
Bund tedesco al 2,62%.
Spread sopra i 170 bp, con il BTP al 4,36%.
€/$ a 1,0895.
Perde terreno il bitcoin, pur “tenendo” quota $ 30.000 (30.159).
Ps: è partita, quindi, la “sfida” di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook-Meta, a Elon Musk, proprietario di Twitter, la società da lui acquistata l’anno scorso per $ 44 MD (ed oggi, va detto, piuttosto in crisi, con un valore più che dimezzato e con i dipendenti passati da 8.000 a neanche 2.000). Ha preso il via infatti Threads, la nuova app “social” che si pone avversaria di Twitter. Nella sola giornata di ieri gli abbonati, negli Usa, sono stati 30 ML, ma l’obiettivo è arrivare, in poco tempo, a 1 MD. insomma, meno “cinguettii” e più “fili”.