Domani Emmanuel Macron si presenterà “solo” (politicamente) alla cerimonia di riapertura di Notre Dame: impossibile, in uno stormire di fronde, in considerazione della gravità della crisi politica che si è aperta, trovare un Primo Ministro degno di questo nome. Anche perché il rischio è che, come nel caso di Barnier, è che il rischio concreto è che si vada incontro ad un Governo di minoranza (l’obiettivo dichiarato del Presidente della Repubblica è di “tener fuori” destra e sinistra, o meglio, estrema destra ed estrema, come vengono giudicate le forze politiche guidate da Marine Le Pen e da Jean-Luc Melenchon.
Lo stallo politico (nelle sue prime parole Macron aveva dichiarato che entro 24-48 ore avrebbe trovato la soluzione: probabilmente Trump, come sempre, ha “fatto scuola”, visto che da sempre si dice convinto che con lui Presidente USA, la guerra in Ucrainasi chiuderebbe nell’arco di un giorno o poco più…), peraltro, al momento non sta causando nessun “trauma” e nessuno spavento sui mercati, sia quelli francesi che, a maggior ragione, su quelli internazionali. Forse anche perché i “prezzi” (o lo spread) hanno già “scontato” il “vuoto di potere”.
Rimane il fatto che la Francia, oggi, è ritenuta, per quanto riguarda i conti pubblici, un malato piuttosto grave, per la cui guarigione sono ritenuti indispensabili interventi drastici e ancor di più urgenti.
Il Paese transalpino, come sappiamo, ha il debito pubblico, in termini assoluti, più alto d’Europa (circa € 3.300 MD), per quanto il rapporto debito/pubblico, pur salito molto, rimanga in parametri “accettabili” (circa il 112%).
Ciò che maggiormente preoccupa sono le dimensioni della spesa pubblica e il deficit annuo necessario a sostenerla.
Il PIL francese valeva, alla fine dell’anno scorso, circa € 2.850 MD. La spesa pubblica è pari ad oltre il 57% del PIL, il livello più alto d’Europa. Perchè si riesca a mantenere un minimo di equilibrio, si calcola che, da qui al 2030, si dovranno “tagliare” spese per almeno € 150 MD (circa € 22 MD per anno). Per ora l’impresa è assolutamente impossibile: infatti il deficit, per l’anno prossimo (anche se non esiste una Legge di Bilancio, per cui i dati sono assolutamente un puro “esercizio”) è stimato al 7%, percentuale che, se si reiterasse, porterebbe dritta dritta al default in pochi anni. E anche il disavanzo primario, quello al netto degli interessi sul debito, si conferma il più altro d’Europa, arrivando al 4%.
In tutto questo, ieri lo spread è riuscito a recuperare qualcosa, scendendo a circa 78 bp: gli investitori, infatti, hanno letto nelle parole di Marine Le Pen, una “apertura” che consentirebbe di approvare, nell’arco di poche settimane, la nuova legge finanziaria. Certamente i francesi non possono farsi molte illusioni: la loro “grandeur”, al di là delle dichiarazioni macroniane, tese ad esaltare l’efficienza francese, che in 5 anni è riuscita a restituire al mondo uno dei monumenti “simbolo” dell’umanità, non solo in queste ore, ma in questi mesi, per non dire anni, è ripetutamente messa in discussione. Non a caso lo spread, appunto, ha superato quello greco ed è distanziato dal nostro di neanche 30 punti, minimo dal 2008. Il nostro, nel frattempo, è sceso sino a 109 bp; numero, in realtà, che dovrebbe essere ancora inferiore (si calcola addirittura intorno a 100), per il fatto che il “rapporto” si riferisce ad un titolo – il nostro BTP – che scade a febbraio 2035 contro un Bund la cui scadenza, invece, è fissata ad agosto 2034, e quindi 6 mesi prima (in altre parole, il nostro decennale, in realtà, dura 10 anni e 2 mesi, il loro 9 anni e 8 mesi).
Uno dei motivi del rafforzamento del nostro spread va , probabilmente, ricercato, più che in motivazioni “endogene”, su motivazioni “esogene” (ergo, il “malessere” francese): l’incertezza politica, infatti, si ritiene non sia finita, per cui si potrebbe assistere ancora ad una certa volatilità dello spread, che potrebbe, secondo alcuni, anche raggiungere quello italiano (uno smacco tremendo per i nostri “cugini”). Motivo che potrebbe aver spinto, e potrebbe ancora spingere, diversi investitori a “cambiare cavallo”, abbandonando i titoli pubblici francese per passare ai nostri BTp. Il tutto avendo, per il momento, le Agenzie di rating, mantenuto invariato il rating francese: ma c’è da essere certi che se dovessero “mettere mano alla scure”, abbassandolo, qualche “sconquasso”, dalle parti di Parigi (e non, questa volta, nelle banlieu…) potrebbe arrivare.
L’ultimo giorno di trattazione della settimana vede i mercati del Pacifico contrastati.
In Giappone il Nikkei ritraccia dello 0,80%, mentre lo yen si sta leggermente rafforzando.
Deciso rafforzamento, invece, per Hong Kong, dove l’Hang Seng fa segnare il + 1,6%.
Bene anche Shanghai, a + 1,05%.
Taiex Taiwan – 0,32%.
Piuttosto volatile, a Seul, il Kospi: dal – 2% dell’apertura, si è portato a – 0,56%.
In recupero i futures, che in questi minuti sono portati un po’ ovunque oltre la parità.
Petrolio poco mosso, con il WTI a $ 68,20 (- 0,25%).
Gas naturale Usa a $ 3,042 (- 1,40%).
Oro a $ 2.659 (+ 0,34%).
Spread questa mattina sotto i 109 bp (108,7), minimo dal 2021.
BTp al 3,19%.
Bund 2,10%.
Treasury 4,17%, in leggerissimo ribasso.
€ in recupero, a 1,0572 vso $.
Dopo i record di ieri, quando ha superato i $ 104.000, questa mattina inverte la rotta il bitcoin, che torna sotto quota 100.000 (98.670).
Ps: come in politica gli “estremismi” sono sempre più diffusi, così pure succede nella distribuzione della ricchezza. Infatti, si amplificano sempre di più le differenze sociali. Lo testimonia la crescita del numero dei miliardari nel mondo. Se nel 2015 erano 1.757, con un patrimonio stimato di circa $ 6.329 MD, ora sono 2.682, con una ricchezza che raggiunge i $ 14.000 MD (Americhe $ 6.463 MD, Europa-Medio Oriente-Africa $ 3.703 MD, Asia-Oceania $ 3.804 MD). Da noi quanti sono? L’anno scorso erano 56, quest’anno sono diventati 62, con un patrimonio complessivo di circa $ 200 MD, con un incremento, in neanche 12 mesi, del 23%.