In sociologia la teoria dei sei gradi separazione è l’ipotesi secondo cui ogni persona può essere collegata a qualunque altra persona o cosa attraverso una catena di conoscenze e relazioni con non più di 5 intermediari.
Partendo da questo assunto, allo stesso modo, pur con una certa “libertà interpretativa”, potremmo dire che quanto avverrà oggi in alcune piccole contee dell’Arizona, del Michigan o della Pennsylvania (per citare solo alcuni dei 7 “swing states”, vale a dire gli Stati dove con tutta probabilità si decideranno le sorti degli Stati Uniti) riverberà su gran parte del mondo (e quindi anche su di noi). Perché, ancora una volta, sarà in questi Stati che si determinerà la vittoria di uno fra i 2 sfidanti: poche migliaia di voti in grado di spostare, a ben vedere, gli equilibri mondiali.
Ecco, forse, il più evidente paradossa di quella che è unanimemente riconosciuta come la più grande (e forte) democrazia del mondo: può vincere, infatti, non chi prenderà più voti, ma chi conquisterà il maggior numero dei grandi elettori (570).
Facendo la “spunta” dei voti “certi”, si parte con la parte democratica (e quindi Kamala Harris) forte di 226 grandi elettori (seggi) e quella repubblicana (Trump) che rincorre con 219: solo 7 seggi li separano. Ma in gioco ce ne sono 93, praticamente tutti concentrati in quei 7 Stati (oltre ai 3 sopra citati, Wisconsin, Nevada, Georgia, North Carolina), oltre, va detto, allo Jowa, dato per “feudo” repubblicano, ma, dove, invece, sembra che i sondaggi diano favorita, anche qui per una manciata di voti, la Harris (proprio da questo Stato sono partite, nelle ultime ore, le rinnovate speranze, per la Vice Presidente, di poter rimanere alla Casa Bianca, questa volta con un ruolo, però, un po’ diverso…). Per la legge elettorale Usa, lo sappiamo, vale la regola “all in”: come sanno bene i giocatori di poker, all’avversario che perde non “rimane niente”, andando tutti i seggi al vincitore (fatto salvo il Nebraska, che riserva 1 seggio a chi incassa la sconfitta – e quindi alla Harris, visto che lì la vittoria repubblicana è pressoche acquisita).
L’anomalia “americana” (perché, a ben vedere, di questo si tratta: in nessun’altra parte del mondo – a meno che non si parli di Venezuela, Corea del Nord o Iran, per citare alcuni Paesi non certo esempio di democrazia – è pensabile che possa vincere chi, fosse anche di 1 solo voto, prende meno preferenze) è facilmente verificabile con una semplice somma numerica: la California, lo Stato che esprime il maggior numero di Grandi elettori, arriva a eleggerne, con 38,7 ML di abitanti (dato 2023), 54; i 22 Stati più piccoli (tutti, tranne il Maine, a maggioranza repubblicana), a fronte di una popolazione che arriva si e no a circa 38,5 ML di abitanti, esprimono ben 95 Grandi Elettori. Vale a dire ben il 75% in più rispetto a quelli eletti in California.
Tra poco, quindi, si apriranno i seggi. E qui, se vogliamo, riscontriamo un’altra “anomalia” americana.
Tutti aspettiamo con, possiamo dire, impazienza (forse anche per tornare a pensare ad altro: ormai sono mesi che le attenzioni, già di loro molto elevate in tempi normali, si concentrano su oltre oceano, al punto che probabilmente conosciamo meglio la legge elettorale Usa rispetto alla nostra – cosa, peraltro, si direbbe, normale, visto che la nostra è nota, probabilmente, ai “pochi eletti” che l’hanno congegnata e approvata, anche perché, in primo luogo, cambia ogni 2 per 3, e poi assume, chissà perché, sempre nomi strani, con desinenze latine, come Mattarellum, Porcellum (nomen omen verrebbe da dire….), etc.) la data di oggi: si scopre, poi, che ad oggi hanno già votato, per posta o grazie al voto anticipato, circa 80 ML di persone. Se pensiamo che nel 2020 avevano votato 158 ML di persone (su una platea di circa 230 ML di aventi diritto), ciò significa che, prima ancora che si aprano le urne, oltre il 50% degli americani (se il numero dei votanti venisse confermato: ma, guardando al voto per posta, questa volta si dovrebbe andare ben oltre) ha già espresso il suo parere (tant’è vero che ieri, nel suo ultimo comizio in North Carolina – guarda caso uno degli Stati contesi – Trump ha parlato in un’arena mezza vuota: a quanto pare, così dicono i suoi supporter, appunto perché in molti avevano già votato; cosa che, invece, non è capitata alla Harris, che, in Pennsylvania, forse il più importante – e determinante – tra gli Stati “contesi”, ha tenuto il suo ultimo comizio di fronte ad un “tutto esaurito”).
Ma, oramai, è questione di ore…
Oggi qualche indicazione “preveggente” potrebbe arrivare dai mercati: certamente, parlando soprattutto, di quelli “evoluti” (USA, UE), oggi per lo più “attendisti”, ma pronti a cogliere i segnali che dovessero arrivare (si sa come siano sempre molto “reattivi”, per non dire “anticipatori”).
Per adesso “godiamoci” i rialzi di quelli asiatici.
Dopo la chiusura di ieri, a Tokyo il Nikkei riparte con un rialzo dell’1,11%, aiutato anche dalla debolezza dello yen.
Buone notizie in arrivo dalla Cina, dove pare che l’economia dia segnali di ripresa, con i servizi che hanno fatto registrare la crescita più alta dal mese di luglio. In aumento anche la fiducia delle imprese, con l’indice Caixin ai massimi dal mese di maggio. A Shanghai, questa mattina, il rialzo dell’indice arriva a superare il 2,32%.
Molto bene anche, a Hong Kong, l’Hang Seng, che arriva a segnare l’1,90%.
A Taiwan il Taiex chiude in rialzo dello 0,62%.
Leggera flessione, invece, per il mercato australiano (Sidney – 0,4%) dopo che la Banca Centrale ha deciso di lasciare invariati i tassi.
Futures ovunque in diffuso rialzo, con variazioni intorno allo 0,20/0,25%.
Petrolio ancora sugli scudi, dopo la decisione di alcuni Paesi Opec di ritardare l’aumento della produzione (si inizierà a discuterne verso gennaio). WTI che si conferma sopra i $ 71 (71,57), mentre il Brent europeo arriva a toccare i $ 75.
Gas naturale Usa a $ 2,789, sostanzialmente invariato.
Stessa cosa per l’oro, stabile, in area $ 2.750.
Spread a 126,4, con i BTP a 3,67%.
Bund a 2,41%.
Treasury a 4,29%, in leggera contrazione dalla chiusura di ieri sera (4,309%).
€/$ poco mosso a 1,0887, in attesa di conoscere il risultato americano.
In leggera ripresa il bitcoin, ad passo dai $ 69.000, dopo che ieri era scivolato verso i $ 68.000.
Ps: ci ha lasciato un grande della musica. Anzi, forse uno dei più grandi, uno di quelli in grado di cambiare il modo di fare musica e, conseguentemente, i generi musicali. All’età di 91 anni se n’è andato Quincy Jones, il “genio” della produzione e musicista lui stesso (ha suonato, per es, con Miles Davis). Tanto per dire, colui che ha prodotto e “firmato” Thriller, l’album più venduto della storia della musica (si stimano più di 100 ML di copie), o che, nel 1985, ha messo insieme “gente” come Steve Wonder, Bob Dylan, Tina Turner, Bruce Springsteen, Diana Ross, Dionne Warwick, Paul Simon, solo per citare alcuni nomi, per incidere We are the world a beneficio dell’Etiopia. Per non parlare della collaborazione con Frank Sinatra. Insomma, non è vero che la musica è sempre la stessa….