L’andamento dei mercati finanziari, di fatto, può essere visto come la risultante di forze contrapposte: le une orientate a prospettive di crescita e di sviluppo, le altre che invece fanno pensare ad un futuro, soprattutto di breve-medio termine (la “velocità di crociera” del mondo rende difficile fare previsioni anche nel breve periodo, come gli errori fatti dai “policy makers” sull’inflazione hanno dimostrato, figuriamoci quelle di lungo termine).
Da quanto possiamo osservare, oggi a prevalere sono le prime, per quanto le nubi, un po’ come l’estate che tarda ad arrivare, non si siano dissolte completamente. Ma evidentemente oggi sono in modalità “risk on”.
L’accordo sul debito Usa può essere visto come “l’interruttore” che ha tolto di scena dubbi che avrebbero potuto imprimere una direzione diversa. Va peraltro detto che non si sarebbe trattato di un vero e proprio default (quello che si verifica quando un debitore non è in grado di onorare il proprio debito), bensì di una “sospensione” delle attività da parte della pubblica amministrazione del Paese. Cosa che, visto di chi si stava parlando, avrebbe avuto non poche conseguenze, anche a livello globale: i milioni di nuovi disoccupati, i pensionati che avrebbero visti gli emolumenti bloccati, gli uffici chiusi, i fornitori non pagati avrebbero avuto un impatto nefasto sull’economia Usa e quindi anche su quella globale. L’accordo quasi “last minute” ha evitato l’ipotesi peggiore, pur nella consapevolezza che nel prossimo futuro arriveranno sul mercato nuove emissioni di debito per almeno $ 1.000 MD che il mercato potrebbe far fatica a digerire.
Un altro elemento che negli ultimi giorni ha assunto una valenza positiva è il dato relativo all’inflazione.
Seppur siamo lontani dalla sua sconfitta, le ultime rilevazioni ci dicono che la strada imboccata è quella giusta. Merito probabilmente non solo delle politiche monetarie restrittive messe in atto dalle banche centrali, ma anche del forte callo delle materie prime, soprattutto di quelle energetiche. Dal picco di 11.6% fatto registrare ad ottobre, l’Europa è scesa al 6,3% di maggio (7% il dato di aprile), mentre negli Usa siamo al 4,9% dal picco dell’8,9%. Va precisato che in Europa il dato non è assolutamente omogeneo, andando dall’8,1% dell’Italia al 2,9% della Spagna: una differenza di 5,2% difficilmente giustificabile se ci limitiamo ad osservare la politica monetaria della BCE. Per quanto tutti, Lagarde in testa, continuino a sostenere che la via dei rialzi non sia ancora finita, è opinione diffusa che oramai si sia agli sgoccioli: ci potranno essere ancora rialzi, ma non dovrebbero essere né molti (2, forse 3) e, soprattutto, di entità limitata.
Sempre sul fronte americano (per quanto abbiano perso “smalto”, gli Usa continuano ad essere il “benchmark”), il mercato del lavoro continua ad essere piuttosto tonico, confermando che l’economia “tiene”, mentre i salari non salgono, evitando quindi che l’inflazione li trascini verso l’alto.
Ma, come detto, qualche nube permane, a partire dalla capacità dei mercati di assorbire l’imponente quantità di emissioni a cui sarà costretta l’amministrazione Usa.
Quella forse più “cupa”, però, è quella che si è creata sulla Cina. Diverse le cause: le difficoltà ad uscire dalle lunghe e pesanti restrizioni legate al Covid, la crisi del settore immobiliare, la debolezza del settore bancario, il rapido invecchiamento della popolazione, con una disoccupazione giovanile che si avvicina pericolosamente al 20% (stiamo parlando di un Paese con oltre 1,4 MD di abitanti), il tutto succube di una politica fortemente accentratrice, che toglie dinamicità all’iniziativa privata e, quindi, all’economia.
Non va sottovalutata neanche l’incognita legata al fatto che Fitch, una delle maggiori Agenzie di rating, abbia messo sotto osservazione il debito Usa: il rischio è che il rating statunitense possa essere penalizzato, perdendo la tripla A. Decisione che si affiancherebbe a quella presa ormai nel lontano 2011 da S&P, che per prima abbassò il livello del debito Usa. A quel punto ben 2 dei 3 rating tripla A sarebbero “decaduti”, cosa che una qualche conseguenza sui portafogli costruiti sul debito potrebbero averla.
Questa mattina i mercati del Pacifico sembrano confermare la tendenza.
A Tokyo il Nikkei si appresta a chiudere a + 2,10%, trascinando la borsa giapponese a livelli che
non vedeva da oltre 30 anni.
Bene anche, a Hong Kong, l’Hang Seng, in rialzo dello 0,41%. Più cauta Shanghai, appena sopra la parità, però ai massimi di giornata.
Futures intorno alla parità in Europa, mentre al momento sono frazionalmente negativi negli Usa.
Recupera terreno il petrolio, sulle voci di un taglio della produzione dell’Opec +: WTI che si porta a $ 72,78, + 1,35%.
In recupero anche il gas naturale Usa, a $ 2,223, + 2,16%.
“Langue” invece l’oro, che rimane a $ 1.959, – 0,58%.
Spread a 163,8 bp, a conferma del recupero dei tassi, con il rendimento del BTP sceso sotto il 4% (3,97%).
A proposito di BTP, parte oggi il collocamento del nuovo BTP Valore, il BTP di “ultima generazione”, con tasso “step-up” (crescente), della durata di 4 anni. Rendimento medio è del 3,625%, livello che può raggiungere il 3,75% annuo per chi dovesse detenerlo sino alla scadenza, “incamerando” il premio di fedeltà dello 0,5% (pari allo 0,125% per anno).
Leggermente debole il Treasury, il cui rendimento è salito al 3,71% dal precedente 3,61%.
€/$ a 1,0694.
Bitcoin a $ 26.825, in calo dell’1,09%.
Ps: tempi durissimi per l’Argentina. Dopo la breve parentesi di euforia legata al trionfo ai Mondiali di calcio (è noto il beneficio che ne trae l’economia del Paese che “si porta a casa” il trofeo), lo Stato sudamericano è tornato alla triste realtà di ogni giorno. L’inflazione è al 108%, oltre il 40% della popolazione (18 milioni di persone su 44 milioni) vive sotto la soglia della povertà, la Banca Centrale ha, a metà maggio, portato i tassi al 97% nel tentativo (disperato) di bloccare l’ascesa dei prezzi. Intanto, però, la stessa Banca Centrale ha annunciato la stampa di una nuova banconota da 2.000 pesos, il doppio di quella di maggior valore oggi in circolazione (che al cambio ufficiale vale circa $ 10, ma su quello “parallelo”, circa la metà). Con il cambio pesos-$ che ha perso, da inizio anno, oltre il 25%.