I mercati azionari, come sappiamo, si muovono in ordine a diversi fattori, i così detti “market mover”. Stilare un elenco è un compito che richiederebbe tempo, essendo davvero molti gli elementi che impattano sulle quotazioni degli indici. Senza arrivare a scomodare i “cigni neri”, gli eventi assolutamente eccezionali e, soprattutto, imprevedibili (tutti abbiamo imparato a conoscerli con il Covid, l’esempio più lampante di “cigno nero”), potremmo citare il PIL, la stabilità politica, il livello di debito (di un Paese o di un’azienda), l’andamento di un determinato settore economico, la situazione dei consumi, l’inflazione, quante case di vendono, il livello dei tassi, etc etc.
Se proprio si volesse andare per sintesi (ma è veramente complicato racchiudere in 2 parole o in 2 concetti cosa porta i mercati ad andare in una direzione piuttosto che in un’altra) si potrebbe dire che i mercati “vivono” di 2“drive”: i dati macro che circostanziano il “qui e ora” ma, ancor di più, quelle che sono le prospettive future.
Se guardiamo quanto si sta verificando dall’autunno scorso, non c’è dubbio che si sono mossi soprattutto sulla base di aspettative forti che le Banche Centrali potessero attuare politiche monetarie più espansive, avviando, in tempi anche brevi (addirittura, per qualcuno particolarmente ottimista, entro il 2023) il ridimensionamento dei tassi. A questo, però, si sono aggiunti altri elementi: una liquidità sempre a livelli piuttosto elevati, un andamento economico tutto sommato non così difficile come alcuni organismi avevano previsto, una situazione geopolitica, per quanto preoccupante, mantenuta “sotto controllo”, utili aziendali che confermano la buona salute delle aziende (vd le ultime trimestrali), etc. Una combinazione di elementi che, a sua volta, ha contribuito a generare un “sentiment positivo” che ha via via allontanato i “cattivi pensieri” (l’emotività ha poco, se non niente, di oggettivo, ma può fare la differenza).
A tutti questi fattori, però, bisogna aggiungerne un altro, che, almeno nell’ultimo anno, è diventato un “contributore” tra i più importanti: i buy-back.
Con tale anglesismo si intende il riacquisto delle azioni proprie da parte delle società. La finalità ultima di questa attività è di creare valore per gli azionisti.
Diversi sono gli aspetti positivi che si raggiungono attraverso questa strategia. In prima battuta aumenta il prezzo delle azioni per la semplice ragione che diminuisce il loro numero, venendosi a creare l’effetto scarsità. C’è poi un aspetto puramente psicologico: se un’azienda “spende soldi” per comprare i propri titoli trasmette un messaggio di fiducia agli investitori, nella convinzione che il valore societario sia destinato a crescere. Non meno importante l’aspetto puramente fiscale: spingendo gli azionisti a “tenere” il titolo, si rimanda la tassazione ad una fase successiva. Per non parlare dell’incidenza su parametri oggi ritenuti determinanti, come il rapporto prezzo/utili o l’utile per azione (EPS): ovvio che, nel momento in cui riduco il numero di azioni, a parità di utili aziendali, l’utile per azione cresce.
Fino ad oggi i buy-back si pensava fossero una caratteristica dei mercati azionari. Scopriamo, invece, che il Tesoro americano, con una mossa un po’ a sorpresa, ha deciso di avviare il riacquisto di Treasury per $ 2.5 MD alla settimana (2MD con cedola fissa, 0,5MD Tips, cioè legati all’inflazione) almeno da qui a fine luglio (in realtà già nel 2002 aveva fatto qualcosa di simile, ma parliamo, per i mercati finanziari, di “preistoria”). Una mossa che va nella direzione opposta rispetto alla FED, che, invece, con il tightening è “venditrice” di titoli: attualmente al ritmo di $ 95 MD mese, di cui 60 MD treasury e 35MD garantiti da ipoteca, i così detti “mortgage backed securities, volumi che da giugno scenderanno a $ 60 MD, grazie alla riduzione delle vendite di Treasury, che passeranno a $ 25 MD mese. Il “saldo”, quindi, sarà pari a $ 15 MD di treasury che saranno “piazzati” mese su mese (i 25 MD venduti dalla FED meno i 10 MD comprati dal Tesoro). Evidentemente un segnale positivo per i mercati, con un duplice (se non triplice) risultato: generare nuova liquidità, visto che dai 60 MD attualmente venduti si scenderà a 15, con $ 45 MD che quindi potranno prendere strade diverse, stabilizzare il comparto obbligazionario, con i rendimenti dei treasury che, come già si è visto negli ultimi giorni, sono scesi, diminuendo la volatilità del settore. E poiché è nota la “correlazione inversa” tra mercati obbligazionari e mercati azionari: quindi una diminuzione dei rendimenti obbligazionari normalmente provoca un rialzo delle quotazioni azionarie.
Ieri sera, a Wall Street, il Nasdaq ha toccato nuove “vette”, con un rialzo dello 0,32%, grazie soprattutto alla performance di Nvidia, in rialzo del 4,5% dopo che il finanziamento di XAi, la “nuova” creatura di Musk nel settore della AI (poteva forse mancare quello che probabilmente è il più eccentrico imprenditore del pianeta?) è andato a buon fine, portando la società ad una valutazione pari a circa $ 24 MD.
La forza dell’indice tecnologico americano, però, non è sufficiente questa mattina a sostenere le quotazioni degli indici asiatici.
A parte Shanghai, che “difende” strenuamente la parità, sia il Nikkei di Tokyo che l’Hang Seng si avviano verso chiusure negative (rispettivamente – 0,77% e – 1,45%).
Negativo anche, a Seul, il Kospi (- 1,4%).
I futures lasciano intravedere un avvio di giornata all’impronta del segno meno, con ribassi diffusi, compresi tra il – 0,25 e il – 0,35%.
Petrolio che continua la sua risalita, con il WTI che questa mattina supera gli 80$ (80,29, + 0,46%).
Gas naturale Usa che continua la sua marcia di avvicinamento verso i $ 3 (2,837, + 0,25%).
Rifiata, questa mattina, l’oro, a $ 2.355 (- 0,15%).
Spread a 130,8 bp.
BTP che ritorna vicino al 4% (3,94), + 5 bp.
Treasury a 2,63%.
Treasury 2,56%.
€/$ a 1,0853.
Bitcoin a $ 68.445.
Grazie come sempre per l’attenzione.
Ps: lo S&P 500, l’indice “per eccellenza”, per circa 1/5 del suo valore è composto da 7 società (le “magnifiche sette”, anche se, probabilmente, oggi sono 6, avendo una di loro – Tesla – perso un po’ della sua “magnificenza”).
Ma in Danimarca c’è una società, Novo Nordisk, che da sola vale più del PIL di tutto il Paese (€ 500 MD vs € 358 MD). Un valore raggiunto grazie ad un farmaco che aiuta a combattere l’obesità (infatti ben 4 confezioni su 5 vengono vendute negli USA).