Nell’arco di quest’anno, circa il 60% della popolazione mondiale (ormai superiore agli 8 MD) è chiamata al voto, con le urne che saranno aperte in oltre 76 Paesi (tra cui 8 tra i 10 Paesi più popolosi al mondo). In alcuni di questi si è già votato (Taiwan, Iran, Russia, Indonesia), in altri si voterà a breve (Messico, UE), mentre clamoroso è il caso dell’India, dove le votazioni sono iniziate da pochi giorni e si concluderanno nei primi giorni di giugno.
Va detto che in molti casi si tratta di elezioni falsate, trovandosi almeno 1/3 dei Paesi in cui si voterà in una situazione di limitata, se non nulla, libertà di espressione. In altri casi (vd UE) non si tratterà di elezioni “nazionali”, bensì di un voto che dovrà eleggere il Parlamento di una federazione. Se si parla di “ricchezza”, con riferimento alle elezioni nazionali, i Paesi in cui si voterà rappresentano circa il 40% del PIL mondiale.
Eppure, tutto il mondo guarda con sempre più attenzione (e preoccupazione) alle elezioni Presidenziali americane: ormai mancano 6 mesi “all’evento – politico – clou” dell’anno. Probabilmente l’unico in grado di determinare una nuova situazione geopolitica globale, vista l’importanza di quel Paese negli equilibri mondiali, sia che si parli di economia che di politica. Di fatto, è come se il 4% della popolazione mondiale (negli USA vivono circa 330 ML di persone) avesse la possibilità di cambiare “l’ordine delle cose”.
Ad oggi i “duellanti” non hanno ancora iniziato “a darsele con santa ragione”, alle prese come sono con alcuni “piccoli problemi”: il Presidente Biden impegnato a risolvere da una parte una duplice crisi che disturba non pochi i suoi sonni e quelli di altri leader (Ucraina, con il Congresso che ha appena votato una nuova risoluzione per fornire nuovi aiuti per svariati miliardi di $, ma soprattutto, Israele, dove si cerca in ogni modo di evitare un attacco militare a Rafah che potrebbe definitivamente porre fine alle speranze di pace), oltre che a “tenere alto il morale” dei cittadini americani, preoccupati da un livello di inflazione che, al momento, annulla quanto di buono sta facendo l’economia, facendo percepire il rischio di una maggior “povertà”, soprattutto tra le minoranze etniche (afro americani, ispanici, asiatici), determinanti per l’esito elettorale; lo sfidante Trump che deve districarsi tra battaglie legali che potrebbero costargli care (non solo da un punto di vista finanziario – quello è già stato “spesato” – quanto dal punto di vista politico).
Se il “mondo che verrà” sarà determinato dal risultato elettorale, un po’ diverse sono le cose per ciò che riguarda i “puri” aspetti economico-finanziari.
Infatti, a prescindere da chi vincerà le elezioni, oggi solo il 7% degli investitori e dei money manager ritiene che l’economia americana possa cadere in un “hard landing” (si legge “atterraggio duro”, si pronuncia “recessione”), mentre è salito al 40% la percentuale di coloro che ritiene che l’economia non vacillerà (no-landing) e al 45% quella di chi pensa che un impatto, seppur minimo, lo avrà (soft-landing). A destare le maggiori preoccupazioni è proprio la “resistenza” dell’inflazione, su cui concordano il 36% degli investitori, un fattore che potrebbe spostare ulteriormente avanti nel tempo la decisione della FED sui tassi. Solo il 20% si dice preoccupato dall’evolvere della crisi geo-politica, mentre il 19% teme interventi “fuori tempo” da parte delle Banche Centrali.
Guardando, invece, al mercato finanziario americano, le Presidenziali e, ancora di più, il loro esito,sembrano non “spostare” molto le cose. Guardando alla “Storia” e prendendo in considerazione le elezioni degli ultimi 120 anni (e quindi, appunto, la “storia di Wall Street), si è notato che la borsa americana “non si cura molto”, nell’anno elettorale, se a vincere è un esponente del partito Democratico piuttosto che di quello Repubblicano. La statistica, infatti, ci dice che nel 1° semestre solitamente i mercati attraversano una fase “laterale” (si definiscono in questo modo quei momenti in cui nessuna “forza” sembra prevalere), con un andamento negativo non superiore al 2% (ma quest’anno, nonostante il mese di aprile non sia stato così positivo, ad oggi si registra una crescita di circa il 5%: quindi non ci sarebbe da stupirsi se, da qui a giugno, si assistesse ad un “ritracciamento” e si arrivi ad un risultato vicino alla parità). Da luglio, invece, gli indici “ingranano” la marcia e iniziano a salire: in 4 mesi (luglio-ottobre) la crescita è misurata nell’ordine del 4%, per poi, negli ultimi 2 mesi, a esito elettorale ormai certo, avere un’ulteriore accelerazione che potrebbe arrivare al 6%, per portare il rialzo medio dell’anno a circa l’8% (- 2% nel primo semestre, + 10% nel secondo).
Questa, appunto, la statistica: ma tante sonno le variabili, come detto (inflazione, crisi geopolitiche, crescita), che potrebbero cambiare, almeno un po’, l’ordine delle cose (a partire dai mercati stessi, che, senz’altro, oggi non si trovano in una fase “laterale”).
La settimana, in parte influenzata dalla festività del 1° maggio, che potrebbe portare a scambi ridotti, si apre con i mercati asiatici ben impostati.
Chiusa Tokyo per festività, spicca, ancora una volta, il rialzo di Hong Kong, dove l’Hang Seng, in crescita di quasi 1 punto percentuale (ma in apertura era arrivato anche al + 2%), che porta la crescita dai minimi di fine gennaio a quasi il 20%. Bene anche Shanghai, che sale dello 0,76%. Taiwan fa segnare + 1,6%, seguita dalla borsa di Seul, con il Kospi a + 0,9%.
Sensex di Mumbai + 0,5%.
Positivi ovunque i futures, con rialzi intro a 0,30-0,40%.
Petrolio in calo, con il WTI a – 0,89% ($ 83,20).
Gas naturale Usa ad un passo da $ 2 (1,958, + 1,66%).
Lieve ribasso per l’oro, a $ 2.342 (- 0,29%).
Spread che torna, dopo le tensioni delle scorse settimane, sotto i 130 bp (129,1), con il BTP a 3,91%.
Bund a 2,57% (chiusura di venerdì).
Treasury a 4,66%.
€/$ 1,072.
Bitcoin a $ 62.303, in calo dell’1,28%.
Ps: i concorsi di bellezza, si sa, hanno regole abbastanza ferree. Una di questa, normalmente, riguarda l’età, che impone limiti anagrafici abbastanza stringenti. In Argentina, però, il concorso Miss Universo Argentina ha abolito qualsivoglia limite (prima fissato a 28 anni). Sarà un caso, ma a vincere il concorso è stata un’avvocata di 60 anni, Alejandra Rodriguez (nulla a che vedere con Belen). E da notare il fatto che tra le finaliste ci fosse un’altra concorrente che di anni ne aveva 73…Verrebbe da dire, visti i problemi in cui si dibatte quel Paese”, con una crisi economica, ancora una volta, profondissima, un’arma di “distrazione” di massa…..