Molto si è parlato, in questi anni, di globalizzazione, un termine utilizzato per indicare lo spostamento della produzione, da parte delle multinazionali, verso quei Paesi che, vuoi per i vantaggi fiscali che offrivano vuoi per i minori costi produttivi, erano in grado di garantire il mantenimento di marginalità altrimenti irraggiungibili nei rispettivi Paesi. Un processo che, come noto, il Covid ha bruscamente interrotto: il blocco del commercio internazionale ha provocato shock devastanti, con i “colli di bottiglia” che tutti abbiamo imparato a conoscere, visti i clamorosi ritardi degli approvvigionamenti che tanta causa hanno avuto nel tracollo dell’economia nel 2020.
Da allora si è iniziato a parlare di “ritorno a casa” da parte di molte aziende, con la nascita di neologismi (vedi i termini reshoring o near-shoring) ad indicare la riapertura di siti produttivi nei Paesi di origine oppure in Paesi “amici” comunque facilmente raggiungibili.
Possiamo ben comprendere come “l’ordine mondiale” dipenda, pertanto, non solo dalle vicende geo-politiche, ma anche dalle politiche fiscali che i singoli Governi, in maniera autonoma, decidono di volta in volta di attuare per attrarre investimenti (anche se, in realtà, le cose sono ben più complesse e difficilmente “catalogabili” in alcuni provvedimenti, entrando in gioco fattori comportamentali, sociali, persino religiosi, che possono indurre o meno le scelte).
Al fine di rendere omogenee le politiche fiscali, da qualche anno si è iniziato a discutere sulla opportunità di attuare la cosi detta “tassazione globale”, con l’obiettivo di “annullare” qualsiasi tipo di vantaggio fiscale a seconda del Paese (o dell’area geografica) dove una multinazionale produce i suoi beni o vende i suoi servizi. Un obiettivo che si sarebbe raggiunto grazie all’accordo di oltre 140 Paesi, con in prima linea i Paesi Ocse.
Ma, “all’ultimo miglio”, qualcosa sembra andare storto. Infatti, alcuni Paesi (Canada e Nuova Zelanda i più in vista) hanno “rotto il fronte”, muovendosi in maniera autonoma. Ma la cosa più grave è che senza la ratifica degli USA, dove ha sede la maggior parte delle società che potrebbero essere oggetto del provvedimento, parlare di global tax diventa puro “bizantinismo”. L’anno elettorale senz’altro non aiuta: al di là del fatto che per la politica americana, in questo periodo, le priorità sono altre, diventa difficile, se non impossibile, pensare che democratici, favorevoli all’introduzione, e repubblicani, contrari, trovino un accordo (per il quale sarebbe necessari 67 voti, con i democratici che hanno sì la maggioranza, ma si fermano a 51 seggi). Un qualche speranza potrebbe esserci se dovesse vincere Biden, essendo Trump dichiaratamente contrario. Rimane il fatto che il “protocollo di intenti” ha, come data ultima, il 30 giugno: e pensare che in soli 4 giorni si trovi un accordo su un tema di tale importanza è pura utopia e anche ragionare su chi vincerà il prossimo 5 novembre diventa nulla più che accademia.
Ovvio che le varie “corporation” hanno tutto l’interesse al “liberi tutti”, essendo libere, in quel modo, di stringere accordi “unilaterali” con quei Paesi che possono trarre maggiori vantaggi (fiscali, occupazionali, di crescita).
Secondo alcuni calcoli si parla, complessivamente, di circa $ 200 MD di profitti annui che potrebbero, nel caso la global tax diventasse realtà, essere redistribuiti, cifra in assoluto non così eclatante, ma che potrebbe essere comunque un contributo significativo per qualche economia.
Giornate relativamente calme sul fronte dei dati macro, con un’agenda piuttosto scarna da questo punto di vista. Non così per le vicende politiche, con le elezioni francesi ormai alle porte e quelle britanniche in avvicinamento (il 4 luglio), anche se oltre Manica il risultato sembra fuori discussione, con i laburisti, oggi all’opposizione, dati per sicuri vincitori. A fare da “corollario” le vicende europee: si stanno, infatti, decidendo le candidature alle varie “cariche” dopo le elezioni di inizio mese (Commissione Europea, Consiglio Europeo, Parlamento UE), con una nota polemica relativa, per quanto ci riguarda, all’esclusione del nostro Primo Ministro dal tavolo dei “negoziatori” incaricati di trovare la “quadra”.
Ieri sera, a New York, rimbalzo del Nasdaq (+ 1,26%), sulla spinta di Nvidia (+ 7%), dopo alcuni giorni in cui le vendite avevano “schiacciato” il titolo.
Dow Jones a – 0,76%, mentre lo S&P 500 è salito dello 0,39%.
Questa mattina tutti in rialzo i listini del Pacifico: il Nikkei di Tokyo “tira” il gruppo, con + 1,26%. Segue la Cina, con Shanghai che recupera l’avvio di giornata negativo, portandosi a + 0,68%; Hang Seng di Hong Kong a + 0,22%.
In rialzo anche, a Seul, il Kospi (+ 0,5%) e Taiwan (+ 0,3%).
Nuovo record per la borsa di Mumbai.
In rialzo ovunque i futures, con l’Eurostoxx che fa segnare + 0,74%.
Petrolio in rafforzamento, con il WTI a $ 81,41 (+ 0,61%).
Gas naturale a $ 2,846 (- 0,80%).
Oro in leggero ribasso ($ 2.328, – 0,21%).
Stabile lo spread, sempre in area 150 bp (150,3).
BTP al 3,92%.
Bund 2,41%.
Treasury poco mossi (4,26%).
$ in leggero rafforzamento, con €/$ a 1,0699.
Bitcoin che, seppur a fatica, riguadagna quota $ 61.000 (61.525).
Ps: negli ultimi anni si è andata sempre più diffondendo la pratica della settimana corta: in Belgio, per esempio, il lavoro è spalmato in 4 giorni già dal 2022, con le ore settimanali ridotte a 32 o 36.
Ma c’è chi va “controtendenza”. E’ il caso della Grecia, dove i giorni di lavoro passano da 5 a 6 (e le ore da 40 a 48 settimanali). Il datore di lavoro potrà richiedere la “settimana lunga” se la sua attività richiede la copertura 12 o 24 ore su 24. E i dipendenti non potranno rifiutarsi. In cambio riceveranno il 40% in più rispetto alla paga ordinaria. Anche questo, secondo alcuni, un modo per sostenere la crescita del Paese, già oggi superiore alla media UE (+ 2,2%).