Logica vorrebbe che, nel momento in cui i “conti” di un Paese non tornano, i primi a soffrire siano i mercati finanziari di cui fanno parte.
Evidentemente non è proprio così. Il tempo stringe e all’orizzonte non si vede ancora nulla di concreto per quanto riguarda l’accordo sul debito Usa. Si cerca, quindi, di guadagnar tempo, con alcuni osservatori (non si sa fino a che punto indipendenti) che spostano al 9 giugno il “D-Day” del default. La cosa certa è che “in cassa” del Tesoro Usa rimangono solo $ 68 MD, praticamente nulla se si pensa che ad inizio maggio erano circa $ 1.000 MD.
Ma, intanto, mentre i mercati Usa, almeno stando alla giornata di ieri (e ancor di più guardando i futures di questa mattina), reggono “all’onda d’urto”, così non è stato per quelli europei, tutti in profondo rosso, con perdite intorno al 2%.
Peraltro, ricercare un “unico” colpevole nella crisi del bilancio Usa non è corretto.
Ieri, per esempio, sono usciti i dati sull’inflazione nel Regno Unito, peggiori rispetto alle aspettative. Ne emerge un quadro che si presta a più di una interpretazione. Se è vero che i prezzi sono in discesa (siamo passati, in un mese, dal 10,1% di marzo all’8,7% di aprile), è anche vero che ci si aspettava un calo all’8,2% (8,4% per la Banca di Inghilterra), quindi un livello ben inferiore. Clamoroso il rialzo dei prezzi alimentari (la Gran Bretagna è “importatrice netta” per circa il 50% delle derrate alimentari), che rimangono al 19,1% su base annua. A preoccupare maggiormente è comunque l’inflazione core (quella che non tiene conto dei generi più “volatili”, come alimentari ed energia), che è addirittura cresciuta, passando dal 6,2% al 6,8%, il livello più alto dal marzo 1992. Una “vischiosità” che probabilmente (per non dire quasi certamente) la Bank of England ad un nuovo rialzo, a giugno, dei tassi, attualmente al 4,5% (già si ipotizza che potrebbero arrivare al 5,5% entro la fine dell’anno, allontanando le speranze di uno stop). L’inflazione britannica si trova ad un livello quasi doppio di quella Usa (ferma al 4,9% nelle ultime rilevazioni), a “pari merito” con l’Italia (anche da noi siamo all’8,7%), ma superiore a quella europea (7%). Da qui i timori che, anche a livello UE, possa essere confermato un trend la cui discesa è più faticosa delle previsioni.
In senso più ampio, le preoccupazioni emerse ieri sui mercati derivano dal fatto che anche laddove si trovasse un accordo prima che scatti “l’ora X” (2 o 9 giugno che sia) ci si possa trovare comunque in una situazione di difficoltà (un po’ come successo nel 2011, uno dei tanti momenti in cui il rischio default era imminente: allora, l’accordo venne trovato, ma non per questo i mercati festeggiarono, con perdite che, relativamente allo S&P500 arrivarono a superare il 15%). Abbiamo imparato, in anni di tassi a zero e liquidità senza limiti, che la crescita dei corsi azionari è derivata, in gran parte, dagli enormi flussi che si riversavano sulle asset class più rischiose alla ricerca di “rendimento”. Una storia che si è parzialmente interrotta con il cambio di passo delle Banche Centrali, che hanno iniziato, chi più chi meno, a “drenare” denaro (che peraltro rimane sempre a livelli elevati: a fine aprile la liquidità aggregata delle prime 5 Banche Centrali al mondo – FED, BCE, Bank of Japan, Bank of England, People’s Bank of China – superava gli 89.500 MD $, pur essendo in calo dai 91.500 di marzo). Un accordo “dell’ultima ora” dovrebbe consentire un “rifinanziamento” del Tesoro Usa pari a circa $ 1.000 MD. Denaro che, per forza di cose, dovrebbe essere richiesto al mercato. Un mercato che, nel frattempo, è diventato più “selettivo”, vuoi per ragioni geopolitiche vuoi per motivazioni più prettamente finanziarie.
Sul primo punto, da sempre uno dei maggiori “acquirenti” del debito Usa è la Cina, un Paese che fa fatica a riprendersi dallo shock del Covid (che pare stia rialzando la testa in molte regioni, con un numero di casi in crescita vertiginosa) e che ha pensato, negli ultimi 12 mesi, di aumentare le proprie riserve aurifere piuttosto che investire nei treasury Usa.
Da un punto di vista finanziario, invece, è recentissima la vicenda delle banche regionali, la cui crisi è dipesa, in buona parte, dall’aver investito, in maniera poco lungimirante e senza la minima valutazione del rischio, i titoli governativi a lungo termine. E le stesse società di asset management, in passato molto interessate al debito americane, in questa fase potrebbero preferire altri strumenti più a breve-brevissimo termine (reverse repo), comunque in grado, visti gli alti tassi, di remunerare la liquidità senza l’assunzione di particolari rischi.
Rimangono quindi 2 potenziali tipologie di clientela: i privati e le grandi banche, pronte, laddove “richieste”, ad entrare in campo. Ma questo significherebbe, appunto, togliere “linfa” ai mercati: evidenza che, nella giornata di ieri, alcuni operatori hanno iniziato ad “annusare”, come hanno dimostrate vendite ben superiori agli acquisti.
Nella notte qualcosa, però, sembra essere cambiato. Ieri sera, a mercati chiusi, Nvidia ha presentato i conti, rivisti al rialzo, grazie al boom della domanda spinta dall’intelligenza artificiale. A beneficiarne (oltre alle quotazioni della società di chip, le ui quotazioni, nell’after hours, sono salite del 21%) è tutto il settore tech, con i futures del Nasdaq in rialzo dell’1,5%.
Tiene “botta”, a Tokyo, il Nikkei, che cresce dello 0,40%. Si difende egregiamente anche Shanghai, per quanto le quotazioni siano in calo dello 0,50%.
Male, invece, Hong Kong, dove l’Hang Seng replica la giornata europea, con un calo del 2,23%.
Leggera flessione anche per il Kospi di Seul (– 0,5%), dopo che la Banca Centrale ha lasciato inalterati i tassi.
In recupero anche i futures in Europa, con Eurostoxx a + 0,23%.
Dopo l’ulteriore rialzo di ieri, prende fiato il petrolio, con il WTI che comunque si mantiene oltre i $ 74 (74,11, – 0,40%).
Gas naturale Usa a $ 2,575, mentre quello europeo ieri è ulteriormente calato, con il megawattora che si è portato a € 27.
In calo l’oro, a $ 1.958 (- 0,40% questa mattina).
Spread a 185,5 bp, con il BTP a 4,32%.
Ancora in rialzo il rendimento dei treasury, a 3,75%.
In ulteriore rafforzamento il $ che si porta a 1,0738 vso €.
In cerca di ripresa il Bitcoin, a $ 26.241, dopo che nella notte ha toccato la soglia dei $ 26.000.
Ps: la scienza può fare cose incredibili. Se ne ha conferma leggendo quanto è riuscito a fare un gruppo di ricercatori di Losanna. Grazie ad un dispositivo di elettrodi in grado di creare un vero e proprio “ponte digitale” sono riusciti a ridare l’uso delle gambe ad un paziente olandese (Gert-Jan Oskam, di 40 anni), rimasto paralizzato 12 anni fa dopo una caduta. Il tutto grazie a degli impulsi che partono dal cervello: quando l’uomo pensa di camminare, o di muoversi, gli impianti rilevano l’attività elettrica della corteccia cerebrale. I segnali elettrici vengono quindi trasmessi al midollo spinale, dove sono posizionati gli elettrodi, che provvedono alla decodifica, i cui segnali, a loro volta, vengono trasmessi grazie ad un sistema in modalità wireless, contenuto in uno zaino e indossabile dal paziente. Altro che ChaptGPT.