Mercoledì scorso la FED ha ridotto, come noto, i tassi, come da tutti previsto, dello 0,25%. Allo stesso tempo, però, Jerome Powell ha messo tutti sul “chi va là”, lasciando intendere che, per l’anno che sta per iniziare, è probabile, stanti così le condizioni, che i tagli non saranno 4 (o 5), ma 2, se non addirittura 1 solo. Tanto è bastato perché i mercati abbiano subito un brusco stop, con le quotazioni scese, in 2 sedute, di oltre il 4% (vd il Nasdaq). Cali accompagnati da commenti preoccupati su una eventuale fine della fase di “bull market”, che continua da circa 2 anni, e l’inizio di una fase più difficile.
Si arriva a venerdì, e si scopre che l’inflazione USA, a novembre, è sì cresciuta, ma meno di quanto si pensasse (da 2,3% a 2,4% vso attese del 2,5%: e ricordiamo che a settembre era al 2,1%).
Come 2 giorni prima le reazioni erano state piuttosto negativa, questa volta si è verificata la situazione opposta, con gli indici americani che hanno reagito quasi con euforia, arrivando, ad un certo punto, guadagnare oltre il 2%, e trascinando i listini europei verso la parità.
Si sta parlando, in un caso o nell’altro, di decimali. Percentuali minime, che però vengono interpretate come “indicatori” di una situazione probabilmente non così chiara, e che si piò prestare a diverse interpretazioni.
Indubbiamente, in chiaroscuro, si può leggere, peraltro, una certa preoccupazione, che spiega, in buona parte, reazioni in cui l’emotività gioca un ruolo non indifferente. Basta poco per spostare le “lancette” di borsa.
Certamente cresce l’attesa per l’insediamento di Trump (20 gennaio): anche perché oramai il Presidente eletto “occupa” la scena in maniera totalizzante, non perdendo occasioni per lanciare proclami, sia a riguardo della situazione geopolitica (l’ultima ieri, quando ha dichiarato di voler incontrare quanto prima Putin per parlare della fine della guerra) sia su temi prettamente economici (vd il “messaggio” di sabato all’Europa, in cui ha detto “chiaro e tondo” che c’è un modo molto semplice per la UE per evitare i dazi: comprare petrolio e gas americani).
Che l’Europa si presenti all’appuntamento del 20 gennaio in una posizione di debolezza è fuori di dubbio: una debolezza prim’ancora politica che economica.
E’ superfluo ricordare come i 2 Paesi più forti dell’area (Francia e Germania) stiano vivendo forse una crisi di rappresentanza che mai avevano conosciuto. Mentre, da un punto di vista economico, il divario tra le 2 aree è destinato, anche nel 2025, ad allargarsi, considerati i ritmi di crescita stimati (+ 2,5% quella americana, 1% – a fatica – in Europa).
Gap che gli andamenti di borsa rappresentano molto bene, se pensiamo che lo S&P 500 è cresciuto più di 3 volte rispetto all’Eurostoxx: + 26% vso + 7,5%.
Un differenziale che appare in maniera ancora più evidente analizzando i multipli.
A venerdì l’indice MSCI World “valeva” circa 13,6 volte gli utili attesi per l’anno prossimo.
Quello Usa, invece, alla stessa data quotava ben 22,6 volte il valore degli utili attesi. Un differenziale che mai era arrivato a tanto: si pensi che tra il 1990 e il 1993 era favorevole all’Europa (per quanto l’Area UE non fosse stata ancora creata).
Ancora più evidente, sotto certi aspetti, la differenza tra i rendimenti dei titoli governativi tra le 2 aree. Se il treasury Usa, venerdì, rendeva il 4,5%, il bund tedesco era al 2,24%: uno spread di oltre 226 bp, mai così alto dal 2019. Un delta che sta a confermare come le previsioni di crescita, anche per l’anno prossimo, siano nettamente favorevoli agli Stati Uniti: inflazione più alta, certo, ma anche crescita per superiore.
Tutte ragioni che spingono la maggior parte degli analisti ad affermare che i mercati USA (con particolare attenzione verso il settore delle small cap, rimasto un po’ più indietro rispetto agli indici principali) hanno, anche per il 2025, spazi di crescita ancora più ampi verso quelli europei, chiamati a fare i conti ancora con una situazione manufatturiera che continua a scivolare e con i Governi spesso con le “mani legate”, chiamati come sono a rispettare i parametri imposti dalla Commissione Europea.
L’ultima settimana dell’anno si apre con quasi tutti gli indici del Pacifico in salita.
A Tokyo il Nikkei “sfoggia” un + 1,25%, spinto dal titolo Toyota (+ 2,5%).
A Hong Kong l’Hang Seng arriva a segnare + 0,74%.
Ripiega, invece, Shanghai, che, dopo un avvio positivo, cala dello 0,35%.
Spumeggiante, a Taiwan, il Taiex (+ 2,64%), dopo la notizia che Nvidia potrebbe aprire una sede secondaria sull’isola.
Kospi Seul + 1,60%.
Futures ben impostati ovunque, a sottintendere un avvio di giornata positivo sia in Europa (Eurostoxx + 1,47) che negli USA (S&P 500 + 0,59%).
Petrolio poco mosso (WTI $ 69,57, + 0,17%).
Gas naturale Usa $ 3,768, complice il “grande freddo”.
Oro a $ 2.644,30.
Sprea a 116 bp.
BTp al 3,45%.
Bund 229%.
Treasury al 4,52%.
€/$ 1,0438.
Bitcoin a $ 96.610.
Ps: che Milano sia la città italiana più “europea” è da tutti riconosciuto. Con vantaggi, certo (non pochi, se è vero che è una delle città italiane in cui si vive meglio, come evidenziato nella classifica pubblicata dal Censis la settimana scorsa). Ma anche svantaggi. Il più evidente, senza dubbio, il caro vita. Che obbliga molti residente a “migrare” nei comuni o nelle province limitrofe. Il costo per “l’abitazione”, infatti, assorbe oltre il 50% del reddito disponibile del così detto “ceto medio”: il 57% dei milanesi dichiara un reddito inferiore ad € 26.000). Ecco, quindi, che a Milano c’è una richiesta di lavoro che non trova risposta: l’Atm è alla ricerca di almeno 300 autisti, l’Amsa non trova addetti per la raccolta dei rifiuti, non si trovano almeno 500 guardie giurate. Ed estendo l’osservazione a tutta la Lombardia, mancano 2.500 infermieri (ma qui le problematiche sono anche altre). Di contro, il prezzo medio delle abitazioni è aumentato, dal 2015 al 2021, di almeno il 41%, e gli affitti del 13%. Contro aumenti dei salari del 3% per gli operai e del 7% per gli impiegati. In città, però, ci sono 16.423 appartamenti popolai sfitti in quanto da ristrutturare o in condizioni fatiscenti.