La programmazione è, in qualsiasi ambito, un’attività fondamentale. Senza programmazione è difficile, per un’azienda, pensare alla crescita e al posizionamento di mercato, per le persone pianificare il loro futuro, per società sportive e atleti stabilire gli obiettivi da raggiungere in una stagione, solo per citare alcuni esempi.
Il Documento di Economia e Finanza (DEF), che racchiude la Legge Finanziaria, e forse ancor di più la Nadef (Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza), non sono altro, in estrema sintesi, che il “programma” economico e finanziario del Paese, rappresentando i “flussi” di cassa, con la previsione delle entrate e delle uscite, nonché le relative coperture finanziarie. Un documento essenziale, che diventa “l’impianto” che definisce le nostre vite e indica la “strada” per conseguire gli obiettivi di crescita e assicurare il benessere dei cittadini, oltre a diventare il “manifesto” in base al quale veniamo giudicati dalla business community e dagli organismi politici, finanziari e monetari, il cui giudizio ha impatti particolarmente importanti, che possono ulteriormente determinare il raggiungimento o meno degli obiettivi fissati.
Succede (può succedere), invece, che non sempre così avvenga e che la programmazione risulti un esercizio in cui i numeri non sono “capisaldi” ma assumono la variabilità del momento, frutto di previsioni che, nella migliore delle ipotesi, sembrano figlie di analisi superficiali.
Il deficit per il 2023 inizialmente doveva essere pari al 4,5% del PIL: una percentuale già ben superiore a quanto previsto del Patto di Stabilità europeo, che fissa al 3% il livello (va detto, peraltro, che la stragrande maggioranza dei Paesi membri ha concordato, sempre per il 2023, livelli ben superiori, dal 5,5% della Francia al 3,6% della Spagna). La Nadef del settembre scorso aveva portato al 5,3% il rapporto, in considerazione dell’incidenza del Superbonus 110%, una vera e propria voragine. Nelle settimane scorse, il Tesoro ha “aggiornato” drammaticamente i numeri, facendo salire al 7,2% il deficit. Ma, a distanza di poco tempo, ecco una nuova “comunicazione”: anche il 7,2% non è un dato veritiero. Il dato vero ci dice che il deficit è del 7,4%, una percentuale che, riprendendo la storica citazione ciclistica “un uomo solo al comando”, ci mette al 1° posto in Europa tra i Paesi con il più alto debito (o all’ultimo posto in termini di “controllo” della spesa…). In “soldoni” parliamo di un disavanzo di € 154,124 MD, che supera di € 4,65 MD le ultime stime (si era partiti da un disavanzo di € 91 MD). Peraltro l’Istat ha già dichiarato che anche gli ultimi numeri non è detto che siano quelli giusti, per cui non ci sarebbe di che stupirsi se, tra qualche settimana, arrivasse una nuova “comunicazione”.
E’ sempre più probabile, quindi, la necessità di una manovra correttiva in grado di “alleggerire” i conti pubblici. Soprattutto in previsione della Legge Finanziaria per l’anno prossimo, che dovrà certamente prevedere un abbattimento pesante del disavanzo, in modo da avvicinarlo ai parametri previsti dall’Europa, e tenere “a bada” il Debito Pubblico, la cui discesa da “quota 140%” in cui si trova ora è, da qui al 2026, alquanto difficile, per non dire improbabile.
Diventano pertanto ancora e sempre più determinanti 2 fattori: crescita e tassi.
La maggior parte delle stime ci dice che il nostro Paese difficilmente andrà oltre lo 0,6/0,7% (mentre quelle governative si spingono sino all’1,2%); numeri certo in linea con quelli europei, ma non sufficienti per “alleviare” i conti pubblici. Ecco perché diventa ancora più importante, per l’Italia, schiacciata com’è da un debito ormai ad un passo dai 3.000 MD, che i tassi inizino a scendere in tempi rapidi: non solo per aiutare l’economia a crescere, ma anche per non ulteriormente peggiorare i conti (le stime ci dicono che entro il 2026 il costo del debito arriverà a toccare i 100 MD, tutti soldi che da qualche parte devono “saltar fuori” e che, se fossero destinati agli investimenti, assumerebbero ben altra importanza).
Possiamo quindi ben comprendere perché il PNRR sia, ancora e sempre, al centro del dibattito politico, essendo, di fatto, forse l’unica risorsa che può essere dedicata agli investimenti e allo sviluppo del Paese.
Le allentate tensioni medio-orientali hanno rasserenato gli investitori.
Ieri sera Wall Street ha ripreso la sua marcia, , con tutti gli indici in buona salute: Dow Jones + 0,67%, Nasdaq + 1,02%, S&P 500 + 0,87%.
L’effetto “trascinamento” non si fa attendere sulle piazze del Pacifico: a Tokyo il Nikkei sale dello 0,30%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng “strappa” dell’1,66%.
Unico mercato in sofferenza Shanghai, in calo dello 0,84%, nonostante UBS abbia deciso di “sovrappesare” i mercati cinesi, in considerazione di una previsione di ripresa dei consumi e degli investimenti.
In ripresa la borsa di Taiwan (+ 1,2%); sulla parità, invece, il Kospi di Seul.
Poco mossi i futures, tutti frazionalmente negativi, con cali non superiori allo 0,10%.
Si è stabilizzato il petrolio, con il WTI a $ 82,12 (+ 0,16%).
Gas naturale Usa $ 1,787, – 0,45%.
In “ritirata” l’oro, che questa mattina arretra a $ 2.318, – 1,29%.
Spread che torna su livelli più tranquilli: questa mattina lo troviamo a 130 bp, per un BTP intorno al 3,78/3,80%.
Bund sempre al 2,49%.
Treasury “osservato speciale” in questi giorni: da qui a giovedì, infatti, il Tesoro Usa sarà chiamato a raccogliere ben $ 183 MD, con 3 aste di titoli: la prima, per $ 69 MD, in titoli a 2 anni, la seconda di $ 70 MD in titoli a 5 anni, la 3° per $ 44 MD, in titoli a 7 anni. I rendimenti, quindi, potrebbero essere “sotto pressione”, nel caso, soprattutto, in cui le richieste non dovessero essere così adeguate. Per ora siamo, per il decennale, al 4,61%, appena inferiore ai livelli del giorno precedente, ma ben oltre i minimi (sotto il 4%) di inizio gennaio.
€/$ a 1,0644., con il $ in leggero recupero.
Bitcoin a $ 66.549.
Ps: il benessere (in senso lato) di un Paese si misura anche in termini di qualità dell’alimentazione. Un aspetto che ha implicazioni di tipo culturale e sociale piuttosto rilevanti. Oltre il 42% dei bambini italiani di età compresa tra i 5 e i 9 anni soffre di obesità. Il dato peggiore a livello europeo, dove la media è del 29%. E siamo solo al 21° posto in Europa per numero di persone che praticano sport con continuità. 2 cose, evidentemente, tra loro collegate. Oltre al fatto che, probabilmente, per molti bambini oggi lo sport preferito è guardare l’iphone e navigare sui social.