Nel corso degli ultimi anni, il nostro “vocabolario finanziario” è diventato sempre più ampio, arricchendosi di termini mai usati in precedenza a riguardo di argomenti monetari ed economici, se non, addirittura, di neologismi. Ecco, quindi, che oggi si passa, quasi con padronanza, da “inflazione target” a “pivot tassi”, da “inflazione core” a “soft landing”, per non parlare di Quantitative tigheting o degli innumerevoli acronimi in voga per definire particolari titoli o settori/aree geografiche. Abbiamo imparato, oramai, che l’inflazione target identifica il raggiungimento dell’obiettivo del 2%, il livello giudicato in grado di “chiudere in un cassetto” le preoccupazioni, mentre i tassi, dal canto loro, è chiaro che oramai sono al “pivot”, il loro punto più alto.
Ma forse le cose, almeno per quanto riguarda l’inflazione, non stanno proprio così, e quindi, un pochino sottosilenzio, comincia a farsi largo l’idea che il “target” potrebbe essere fissato anche ad un livello un po’ superiore. Negli USA, infatti, si è notata, in questi primi mesi dell’anno, una quasi inaspettata ripresa dei prezzi. A cui, però, continua ad accompagnarsi una crescita economica che non accenna a diminuire. Cosa che porta la Banca Centrale a spostare in avanti la decisione di iniziare a tagliare i tassi.
Va detto che negli Stati Uniti le dinamiche economiche (e finanziarie) sono un po’ diverse da quelle europee. Da un punto di vista di impiego dei risparmi, le famiglie americane prediligono investimenti altamente speculativi, quali sono quelli azionari. La forte crescita dei mercati, quindi, provoca una sensazione diffusa di ricchezza”, grazie alle plusvalenze (seppur spesso “teoriche”, in quanto i risparmi risultano sempre investiti): da qui il mantenimento di un livello di consumi privati piuttosto elevati, aiutati anche da una crescita dei salari molto sostenuta.
Dall’altra parte, però, le famiglie americani sono abituate a vivere “a debito”: ci si indebita per i mutui, ci si indebita per l’acquisto delle auto, ci si indebita per i viaggi. Ecco, quindi, che la spesa delle famiglie americane cresce non tanto (o non solo) per i consumi, ma ancor di più per il costo del debito. Se i prezzi delle case sono aumentati, da inizio pandemia, del 50%, i tassi sui mutui sono più che triplicati. E il costo di ‘auto comprata a debito è aumentato di circa l’80%. Forse anche da questo dipende il fatto che l’inflazione percepita dalle famiglie americane è molto superiore a quella “ufficiale”(e forse anche da ciò dipendono, in parte, le difficoltà di Biden sulla strada della rielezione, nonostante gli indubbi risultato ottenuti in ambito economico, con una disoccupazione sempre vicina ai minimi storici e una crescita, come detto, sempre forte).
L’inflazione, quindi, non sembra più la grande “osservata speciale”, almeno per gli analisti e gli investitori: al punto che, se anche si fermasse un po’ sopra il “target” del 2%, la cosa non andrebbe a stravolgere i piani delle Banche Centrali (che comunque hanno già fatto capire che ormai è una questione di pochi mesi: anzi, a dire il vero c’è già chi, come la Banca Centrale Svizzera, ha già dato “inizio alle danze”, con la decisione, presa ieri, di tagliare dello 0,25% il tasso di riferimento, portandolo all’1,5%).
La conferma di un mondo quasi “perfetto” (forse troppo perfetto, con riferimento, ben inteso, ai temi economico-finanziari) ci arriva osservando quanto sta succedendo sui mercati. Praticamente tutti gli asset sono, da inizio anno, positivi: molti listini (almeno 18) hanno toccato il massimo di sempre, l’oro proprio questa settimana ha raggiunto il suo nuovo record, i rendimenti delle obbligazioni, seppur meno forte rispetto all’ultimo trimestre del 2023, continuano a dare segnali di arretramento (lievemente diverso l’andamento dei titoli governativi, tra cui solo il nostro BTP ha continuato a dare segnali di forza, forse in quanto “partiva” da un livello ben superiore a quello di tutti gli altri Paesi). Mentre la liquidità continua ad essere tanta e i timori geo-politici continuano a non creare “fibrillazioni”.
Dopo i nuovi record a Wall Street di ieri sera, sui mercati del Pacifico l’ultima giornata della settimana vede solo il Nikkei di Tokyo con il segno verde (+ 0,18%).
Piuttosto pesante, a Hong Kong, l’Hang Seng, che perde quasi il 2% (- 1,91%); Shanghai, invece, lima dello 0,68%.
In calo Seul (che comunque porta a casa un + 3% settimanale), mentre è sulla parità Taiwan.
Futures leggermente negativi di qua e di là dell’Oceano.
Torna a scendere il petrolio, con il WTI di nuovo sulla “linea di confine” degli 80$ (80,60, – 0,69%).
Stessa sorte per il gas naturale Usa, a $ 1,682, – 0,30%.
Prende fiato, dopo i recenti record, l’oro, che ripiega a $ 2.169 (- 0,80%).
Spread arroccato a 127 bp, con un BTP al 3,65%.
Bund al 2,40%.
Treasury al 4,24%.
Torna a rafforzarsi il $, con l’€/$ a 1,0826.
Bitcoin che vira di nuovo verso l’alto, con le quotazioni che sono tornate sopra i $ 66.000 (66.465).
Ps: i progressi della tecnologia applicata alla medicina hanno dell’incredibile. Oggi, sulle prime pagine di alcuni quotidiani, viene riportata la notizia di un paziente tetraplegico, completamente paralizzato dopo un tuffo, che riesce a giocare a scacchi grazie ad un chip applicato nella mente grazie a Neuralink, la società di neurotecnologie fondata da Elon Musk (e chi altro se no). Un’operazione avvenuta quasi in day-hospital (il paziente è stato dimesso il giorno dopo), Un’operazione, tra l’altro, condotta da un robot: non potrebbe essere altrimenti. Il futuro è adesso.