No news, good news.
Un proverbio valido sempre, ma che in estate, evidentemente, assume un significato ancora più “tranquillizzante”.
Il riferimento, ovviamente, è alle vicende economico-finanziarie.
Su altri fronti, le “news” si susseguono eccome, senza peraltro turbare più di tanto la “quiete estiva”, dal “contrattacco” ucraino sui territori russi, alle notizie, purtroppo non così univoche, sulla presunta trattativa tra Israele e Hamas (peraltro fortemente sponsorizzata dagli USA), alla Convention democratica in corso a Chicago, che incoronerà, proprio oggi, Kamala Harris quale candidata alle Presidenziali di novembre, con Trump che, per la prima volta, appare in difficoltà, con Stati che sembravano già “conquistati” ora, invece, non più così sicuri di vederlo vincitore (per quanto, ovviamente, continui ad ostentare una sicurezza incrollabile).
Il “ribaltone” nipponico di quasi 3 settimane fa sembra, oramai, definitivamente alle spalle, confermando, una volta di più, che si è trattato di un “incidente tecnico” (il “carry trade” che ha visto “chiudersi”, nel giro di poche ore, enormi posizioni $-yen, con la volatilità che nell’arco di 48 ore è passata da 13 punti a 65 e poi scendere a 35, e da qui, con ritmi più normali, continuare la sua discesa (oggi siamo a 16/16.50): nulla, quindi, di sistemico e di pericolosamente “contagioso”, come in altre estati si è verificato (clamorosa e memorabile la crisi del rublo del 1998, con il default della Russia, con l’allora Ministro dell’Economia costretto a portare al 150% i tassi di interesse dei titoli di Stato russi a breve termine).
A dire il vero, oggi, una notizia la possiamo individuare nell’apertura, nelle montagne del Wyoming, del tradizionale annuale simposio di Jaksone Hole, che vede riunirsi i maggiori banchieri centrali del mondo nonché esponenti della business community internazionale. Convegno che quest’anno assume un significato ancora maggiore, in considerazione dell’ormai praticamente certo “taglio” dei tassi americani da parte di Jerome Powell.
Sono ben 12, infatti, i mesi di “hold”, vale a dire l’assoluto immobilismo della FED (ricordiamo che nell’autunno scorso si davano per certi dai 5 ai 7 tagli nei 12 mesi successivi: abbiamo visto come sono andate le cose…l’unico “cenno di vita” lo ha dato la BCE, seppur con il “braccino corso”, visto che Christine Lagarde, lo scorso giugno, si è limitata a “limare” dello 0,25% i tassi europei).
I dati americani odierni (guarda caso in caso in coincidenza con l’inizio del simposio) evidenziano una situazione che, se da una parte mantiene a “debita distanza” il tanto temuto “hard landing”, dall’altro comincia a lanciare segnali che vanno letti con una certa attenzione.
Le richieste dei nuovi sussidi settimanali di disoccupazione si sono attestate a 232.000, in linea con le previsioni.
Non così il dato sui nuovi posti di lavoro creati dalle imprese americane nel periodo aprile 23-marzo 24, con un saldo negativo di 818.000 posti: in sostanza, le previsioni davano per certi 818.000 posti di lavoro in più rispetto a quelli che poi sono stati effettivamente creati. Tradotto, significa che ogni mese si aspettavano 242.000 nuovi posti di lavoro, mentre invece ci si è fermati a 174.000.
A proposito di nuovi posti di lavoro, a luglio sono stati appena 114.000, vale a dire circa la metà del ritmo “normale” che si è registrato nei primi 6 mesi dell’anno.
Ma non finisce qui. Ad agosto l’indice PMI manufatturiero si è attestato a 48, verso attese di 49,5 e il 49,6 di luglio.
Meglio è andata per quello dei servizi, a 55,2 verso il 55 precedente e il 54 atteso.
Quello “composito” (la risultante tra i 2) è pari al 54,1 dal 54,3 precedente.
Insomma, oramai per Powell “aggrapparsi” a qualche evidenza per non “sintonizzarsi” su una politica monetaria più espansiva diventa sempre più difficile. Non a caso si sprecano i pareri favorevoli a 3 tagli (da 0,25% cadauno= da qui a fine anno, con lo “start” che dovrebbe coincidere con la prossima riunione FED del 17-18 settembre, per poi proseguire a novembre e a dicembre. Di fatto, quello di settembre è il “minimo sindacale”: non va dimenticato che a novembre si terranno le attesissime elezioni presidenziali: per quanto la FED sia un organismo indipendente, è ovvio che qualsiasi scelta impatti sull’andamento dell’economia e, di conseguenza, sui mercati. Stare “fermi” potrebbe sembrare una sorta di “facciamoci del male” di “morettiana memoria” (ogni riferimento a Ecce bombo, il film che lo ha consacrato, è puramente casuale….), procedere con maggiore intensità potrebbe essere letto come un “assist” all’Amministrazione in carica, e quindi una sorta di “favore” al Candidato democratico (anzi, “candidata”, in nome delle polemiche, tipicamente italiane, sulla definizione di Primo Ministro o Prima Ministra….).
La giornata sui mercati procede senza particolari scossoni.
Il nostro Mib ha chiuso sulla parità, così come l’indice Erusotoxx.
Meglio è andata al DAX, vicino al + 0,25%.
Questa notte, indici asiatici positivi, con Nikkei di Tokyo a + 0,68% e Hang Seng di Hong Kong + 1,44%. Appena sotto la parità, invecve, Shanghai (- 0,27%).
Mercato americano oggi debole, con il Nasdaq al momento a – 1,12% e S&P 500 – 0,61%.
Sul fronte delle materie prime, il petrolio cerca la strada del recupero, dopo i minimi di periodo che lo hanno riportato ai valori di inizio anno, con il WTI a $ 73,20 (+ 1,67%).
In caduta libera il gas naturale Usa, a $ 2,037, – 6,57%.
Si allontana dai massimi l’oro, a $ 2.496 (- 1,32%).
Spread a 136,5, con il BTP al 3,60%.
Bund 2,25%.
Treasury Usa 3,85%.
€/$ a 1,1115, sulle voci del taglio dei tassi Usa a settembre.
Bitcoin a $ 60.570 (- 240%).
Ps: a Jakson Hole inizia il simposio dei Banchieri Centrali. Da noi, Rimini, ha aperto i battenti il tradizionale meeting di Comunione e Liberazione. Una vetrina per buona parte della nostra politica. E non solo. Come dimostra l’intervento di ieri del Governatore Bankitalia, Fabio Panetta, il cui intervento, tanto per cambiare, ha avuto come oggetto il nostro Debito Pubblico, ormai prossimo ai 3.000 MD di €…Che porta con sé una notizia non certo così positiva: la spesa per l’Istruzione, nel nostro Paese, ormai non supera quella per sostenere il debito. Infatti spendiamo, per assicurare un futuro dignitoso ai nostri giovani, tanto quanto spendiamo per interessi: cioè € 197 MD l’anno. Siamo i primi in Europa. Un primato, però, di cui non andare assolutamente fieri.