A fine 2020 1 yen permetteva di comprare 0,0097$: oggi, a distanza di circa 3 anni e mezzo, se ne possono comprare 0,0064. Significa che la valuta giapponese ha perso circa 1/3 del suo valore (quasi il 10% solo quest’anno) contro $ (“en passant”, credo valga la pena notare che si sta parlando della moneta di una delle economie, per quanto il Giappone non goda di una salute splendida, tra le più forti al mondo).
Da sempre il $ è (a ragione: parafrasando il detto, rivolto agli operatori finanziari, “mai andare contro la FED”, allo stesso modo si potrebbe dire “mai andare contro la storia”) considerato la valuta “di riferimento”, sia per quanto riguarda gli scambi commerciali sia per tutto ciò che è la “messa in sicurezza”, essendo la “moneta rifugio” per eccellenza.
La forza di una valuta dipende da una molteplicità di fattori.
Facendo un salto indietro nel tempo, in passato (un passato molto lontano) il valore di una moneta derivava, fondamentalmente, dalla “quantità” di metalli preziosi che la componevano: inizialmente oro e argento, poi mano a mano sostituite da altri metalli e/o leghe, soprattutto per i coni più piccoli (il “peso”, cioè, era una componente fondamentale per determinare il loro valore: da qui il fatto che le monete più piccole non potevano più essere d’oro). Il valore delle monete, a quel tempo, era tra loro molto simile, essendo l’elemento preponderante il “metallo” che le componeva.
Le cose hanno iniziato a “cambiare” (mai verbo, probabilmente, si può definire più adatto…) con l’avvento della moneta cartacea (detta anche “fiduciaria” in virtù del fatto che si accettava “sulla fiducia”, dipendendo, all’epoca, il suo valore da “quante monete metalliche” rappresentava). Ed è qui che le cose cominciano a complicarsi. Anche perché, nel frattempo, seppur lentamente, il mondo comincia ad “allargarsi”, con nuovi Paesi che vengono scoperti, flussi di cose e persone che aumentano, economie che crescono più velocemente di altre (con “potenze egemoni” che controllavano buona parte del globo, basti pensare alla Gran Bretagna o alla Spagna). In altre parole, come per ogni altra cosa al mondo, il loro valore si riconduce, innanzitutto, alla legge della “domanda e dell’offerta”: che, nel caso specifico, è rappresentato dagli scambi commerciali tra un Paese e l’altro.
Ma il mondo di oggi è molto diverso rispetto a quello dell’epoca romano, e poi da quello medioevale, o da quello rinascimentale, o da quello “nuovo”, nato dalle “Rivoluzioni”, siano queste quella francese o quella industriale.
Ecco, quindi, che molti altri fattori entrano in gioco: la stabilità politica, la copertura (o meno) con riserve di metalli preziosi, le politiche monetarie e fiscali che i singoli Paesi mettono in atto e che contribuiscono a definirne la forza economica. Ma, soprattutto, a definirne il valore è l’inflazione: la forza o meno di una valuta dipende dalla sua capacità di mantenere un cambio stabile o in apprezzamento. Cose che, a loro volta, rimandano alla “performance” del Paese di cui sono espressione. Oggi, per esempio, l’Argentina ha un’inflazione del 303% (trecentotrepercento): nel luglio 2019 con 1 peso si compravano 0,024 $, oggi, a distanza di neanche 4 anni, se ne comprano 0,0011.
Valutazioni che valgono, mediamente, in situazioni “normali”, intendendo come tali quelle in cui tutti i Paesi, chi più chi meno, godono della “stessa considerazione”. Ma ben sappiamo che le cose non stanno così.
Seppur meno che in passato, oggi gli USA continuano ad essere, da un punto di vista prima di tutto economico e militare, la maggior potenza mondiale, con una forte capacità di influenza verso molti altri Paesi. Il $, quindi, ben rappresenta questa situazione. Non a caso, il $ index, l’indice valutario di riferimento, oggi è ai massimi: ben 2/3 delle valute è in “debito di ossigeno” verso il biglietto verde. Non solo, quindi, il Giappone o l’Argentina, ma anche Cina, Corea del Sud, Brasile, Indonesia. Un elenco lunghissimo, in gran parte composto dalle economie emergenti (il 90% degli scambi internazionali si basa sul $): ci sono valute che, solo in questo scorcio di anno, hanno perso oltre la metà del loro valore (il pound libanese addirittura l’83%, il $ dello Zimbabwe l’81%), altre che si avvicinano al 50% (pound egiziano 33,7%, Niger 39,6%).
Sino a quando i tassi USA rimarranno su questi livelli la “divergenza” continuerà, probabilmente, ad aumentare, richiamando, in questo senso, ai “fondamentali monetari”. Come, dall’altra parte, un certo peso è dato dalla forza dell’economia americana. Ma un ulteriore, non meno importante, fattore è rappresentato dalla geopolitica: il perdurare delle tensioni internazionali (a cui va aggiunta la scomparsa del leader iraniano Raisi, considerato il ruolo che quel Paese ricopre nell’area geografica oggi più “incendiaria” al mondo) non fa che spingere gli acquisti della valuta ritenuta la più sicura al mondo.
Possiamo ben comprendere, quindi, come il taglio dei tassi assuma un’importanza ben superiore a quella, per quanto fondamentale, rappresentata dalla lotta all’inflazione, ma sia anche uno “strumento” che può consentire o meno lo sviluppo e la crescita di molte economie, assolutamente distanti da quella americana, ma dipendenti da quella essendo il loro debito e i loro scambi espressi in $.
Ieri sera chiusure “divaricate” a Wall Street: mentre il Nasdaq ha fatto segnare nuovi record (+ 0,69%), il Dow Jones ha perso lo 0,49%, zavorrando, di conseguenza, lo S&P 500, fermo al + 0,10%.
Questa mattina gli indici asiatici appaiono piuttosto appesantiti: a Tokyo il Nikkei scende dello 0,31%, seguito a ruota da Shanghai (- 0,54%).
Ben maggiore la caduta di Hong Kong, dove l’Hang Seng arriva a perdere, in questi minuti, il 2,30%.
In calo anche il Kospi di Seul.
Futures intorno alla parità a New York, mentre quelli europei sembrano un po’ più deboli.
Passo indietro del petrolio, con il WTI che questa mattina tratta a $ 78,85 (- 0,68%).
Gas naturale Usa a $ 2,739 (- 0,58%).
Dopo aver toccato nuove vette ($ 2.452), questa mattina l’oro “lima” dello 0,88% ($ 2.419).
Spread a 127,8, con il BTP sempre ad un rendimento del 3,81%.
Bund 2,53%.
In lieve rialzo il rendimento del Treasury, al 4,47% dal 4,41%.
Non si allontana da 1,086 il cambio €/$ (1,0862).
Continua la nuova corsa del bitcoin, ritornato, a distanza di 2 mesi, sopra i $ 71.000 (71.350).
Ps: i giovanissimi (i ragazzi con età compresa tra gli 11 e i 19 anni) in Italia sono sempre meno (5 milioni e 140 mila), con le proiezioni demografiche che, impietosamente, che ci rimandano a numeri ancora più drammatici.
Ciò che stupisce è la loro “visione” del futuro: oltre il 75% si vede proiettato ad una vita di coppia e ben il 69% desidera avere dei figli (solo l’8,8% vorrebbe un figlio unico, mentre il 18% ne vorrebbe almeno 3). Mai come ora il futuro è nelle loro mani.