Ogni cosa, ogni parola, ancor più ogni comportamento, ha delle conseguenze. Molto spesso, peraltro, come già detto in altre occasioni, è difficile definire quale sia “l’origine”, e quindi stabilire, all’interno del concetto causa-effetto, quale, di volta in volta, sia causa o sia effetto, invertendo i fenomeni.
Le discussioni e le reazioni (dei mercati) alla decisione di Powell, che, almeno in parte, hanno colto di sorpresa (se è vero che circa il 65% degli operatori si attendeva il taglio di 50 punti, con il 35% convinto, invece, di una riduzione dello 0,25%) lasciano spazio a molteplici interpretazioni.
La prima è che, evidentemente, non c’erano più ragione, da parte della FED, di tenere i tassi a quel livello (5,25%-5,50%) con un’inflazione ormai ben sotto il 3% e il rischio di “azzoppare” ulteriormente il mercato del lavoro, oggi la maggior preoccupazione per la FED (ad agosto sono stati creati “solo” 116.000 nuovi posti di lavoro, il livello più basso dopo il Covid). Però, piccolo paradosso, la settimana scorsa le richieste di nuovi sussidi di disoccupazione sono calati , scendendo, dai precedenti 231.000, a 219.000. Del tasso di disoccupazione, sappiamo che, rispetto ai minimi del 3,5%, è salito al 4,2%. Il fatto che occupazione e disoccupazione vadano “a braccetto” (negli ultimi mesi salgono entrambe) è dovuto al fenomeno dell’immigrazione, che sta portando negli USA centinaia di migliaia di personeprovenienti dai Paesi dell’America Latina, spesso sconvolti da crisi economiche pesantissime: basti pensare al Venezuela o all’Argentina, alle prese con un’inflazione intorno al 235% annuo).
La seconda riflessione è che un taglio così potente non è comunque legato al rischio di una recessione alle porte, ma perché la Banca Centrale aveva “spazio” per farlo, avendo mantenuto i tassi ad un livello piuttosto alto per un periodo certamente non breve (12 mesi). Parlare di recessione, in questo momento, sembrerebbe fuori luogo, per più di una ragione.
Una, quella sui dati occupazionali, l’abbiamo appena vista: con questi numeri si è vicini alla “massima occupazione”, il miglior “antibiotico” contro la recessione.
Un’altra, forse ancora più “potente”, riguarda le stime sugli utili dell’indice S&P 500. Per l’anno in corso, infatti, si prevedono in crescita di oltre il 9,6%, ben superiori a quelli dell’anno scorso, quando la crescita fu del 5,3%. E se gli utili delle aziende crescono, ciò evidentemente significa che la produzione viene totalmente “smaltita”. O, detto in un altro modo, che le aziende riescono a “scaricare” gli aumenti dei costi produttivi di questi ultimi anni sui prezzi finali, con i consumi che rimangono elevati (parliamo del mercato americano). Certo, i segnali, se guardiamo al bicchiere “mezzo vuoto”, non mancano: risparmio delle famiglie Usa in calo, aumento dell’indebitamento tramite carte di credito, crescita del tasso di default sul credito al consumo. Tutti indicatori, però, al momento “sotto controllo”. E che il taglio dell’altro ieri potrebbe migliorare, visti i minori oneri finanziari che le famiglie dovranno sopportare.
Insomma, la strada, da qui a 18-24 mesi, sembra tracciata. Rimane l’incognita delle elezioni americane: è probabile, quindi, che sino al 5 novembre i mercati “marceranno compatti”, senza particolari tensioni (fermo restando l’incognita geopolitica che, in alcuni momenti, potrebbe disturbare la “voglia di performance”). Sul dopo, fermo restando l’aiuto che il taglio dei tassi potrebbe portare, si tratterà di capire chi sarà il vincitore (e come vincerà, non lasciando spazio a dubbi e ricorsi vari).
L’euforia “da taglio” di ieri (Dow Jones + 1,26%, S&P 500 + 1,70%, Nasdaq + 2,56%, Europa + 1/+ 1,5%) in parte si fa sentire sui mercati asiatici.
A Tokyo Nikkei + 1,45%, dopo la decisione della Bank of Japan di lasciare i tassi invariati (+ 0,25%)..
A Hong Kong Hang Seng + 1,05%.
Persiste, invece, la debolezza di Shanghai, in calo anche oggi (– 0,55%): palpabile la delusione degli operatori all’immobilismo della People’s Republic Bank of China, che ha lasciato i tassi invariati.
Kospi + 0,7%.
Prendono fiato, dopo la corsa di ieri, i futures, ovunque intorno alla parità.
Ancora in crescita il petrolio, a $ 71,05 (anche se questa mattina accusa un leggero calo dello 0,25%).
Gas naturale Usa a $ 2,359 (+ 0,30%).
Oro al record storico: questa mattina “rompe” il muro dei $ 2.600 (2.600,50, + 0,27%).
Spread poco mosso, a 135,1 bp.
BTP al 3,56%.
Bund a 2,21%.
Treasury 3,70%, in lieve aumento.
Strappo del bitcoin, che si porta a quasi $ 64.000 (64.835).
Ps: conosciamo tutti la profonda crisi del settore automotive, con le vendite a precipizio, trascinate al ribasso dal settore automotive (basti pensare alla Volkswagen, che sta valutando la chiusura di 3 stabliimenti in Germania, con 15.000 lavoratori a rischio licenziamento. Eppure c’è un Paese che, per quanto la sua economia dipenda essenzialmente dalla produzione di petrolio, sembra appartenere ad un altro mondo, La Norvegia, infatti, è il primo Paese al mondo in cui le auto elettriche superano quelle a benzina (754.303 vs 753.905), con quelle diesel vicine al milione (su 2.8 ML di auto in circolazione). Ma se pensiamo alle nuove immatricolazioni non c’è gara: al 31 agosto, infatti, la quota dell’elettrico era del 94.7%. In quel Paese la parità di genere non si misura sulle persone ma sul tipo di auto.