I “trattati di Maastricht”, firmati nel 1992 ed entrati in vigore il 1° novembre 1993, sono il “caposaldo” su cui si basa l’Unione Europea, creando le premesse per la moneta unica europea e definendo gli elementi “fondanti”, da quelli prettamente politici, rafforzando, per esempio, i poteri del Parlamento Europeo, a quelli relativi alla libera circolazione di beni e persone, istituendo la cittadinanza europea, per arrivare agli aspetti economico-finanziari, veri “baluardi”, come il rapporto debito/PIL al 60% o il rapporto deficit/PIL al 3%. Temi su cui, in questi anni, si sono verificati, come ben sappiamo, gli scontri politici maggiori, con contrapposizioni piuttosto marcate tra diversi Paesi membri. Proprio gli aspetti economici e monetari sono quelli attorno ai quali, in questi anni, si sono concentrate le attenzioni maggiori, trovandosi molti Paesi ben al di sopra dei parametri richiesti e non in linea con le tempistiche per rientrarvi.
Con riferimento al rapporto debito/PIL ben pochi sono i Paesi membri che possono dormire “sonni tranquilli”: e comunque si tratta di economie non così “cruciali”, trattandosi di economie con un peso modesto (per esempio, Lussemburgo o Danimarca, entrambe con un rapporto intorno al 30%, o l’Estonia e la Bulgaria, vicine al 20%). A cui si contrappongono, di contro, altri Stati: se si esclude la Grecia, si parla di economie “trainanti” (Francia, Spagna, oltre ovviamente al nostro Paese), tutte con un rapporto ben superiore al 110% (noi siamo al 137%). Percentuali da “brivido”, che oltre a “zavorrare” l’economia, rischiano di “assorbire” buona parte delle risorse finanziarie per far fronte alla sua sostenibilità (ergo il pagamento degli interessi).
Esiste, però, un Paese, tra l’altro con la 4° economia al mondo (è stato appena superato dalla Germania, per quanto la stessa non goda, come sappiamo, di ottima salute) a cui queste percentuali “fanno il solletico”. Il Giappone, infatti, si trova con un debito che vale ben 2 volte e mezzo il reddito che produce, con un rapporto debito/PIL al 255%. Eppure non solo l’economia tiene, ma i mercati non danno i minimi segnali di preoccupazione. Se ne è avuta una incontrovertibile certezza ieri, dopo la decisione (attesa da tempo) della Bank of Japan di porre fine all’epoca dei tassi negativi (con un “ritardo” di circa 2 anni e mezzo rispetto al resto del mondo), una fase che, in quel Paese, durava dal 2016, oltre che essere la prima stretta da 17 anni a questa parte, per quanto, comunque, siano rimasti ad un livello estremamente “flat”, in un range tra lo 0 e lo 0,10%. Una variazione, peraltro, che in altre economie avrebbe avuto conseguenze immediate, con i tassi dei titoli di debito in rialzo, con i prezzi degli stessi titoli, al contrario, in deciso ribasso.
A rendere completamente diverse le dinamiche è un elemento su tutti: la composizione di chi “controlla” il debito pubblico. Ben l’54% delle emissioni pubbliche, infatti, sono detenute dalla stessa Bank of Japan (per fare un confronto, il nostro è in mano a Bankitalia, “longa manus” della BCE, per il 26% circa). Non solo: un altro 19% è in mano alle Assicurazioni e ai Fondi Pensione, mentre l’11% appartiene agli Istituti di credito, per un 81% totale.
Tutti “investitori” di lungo periodo, che non hanno come obiettivo la “massimizzazione” dei rendimenti, tipica della “speculazione”, che gioca sull’allargamento o meno degli spread. Operatori che, pertanto, tengono i titoli si no a scadenza, assicurando una volatilità minima agli investimenti e non portando in “fibrillazione” il mercato. Per rimanere solo alla parte detenuta dalla Banca Centrale nipponica, si calcola che le perdite in conto capitale oggi ammontano a oltre $ 71,2 MD: un valore che rimane, però, puramente teorico e “buono” per le statistiche. Cosa ben diversa, sarebbe, infatti, se fosse in mano alle Banche d’affari o, peggio ancora, agli Hedge Fund, tutti investitori che, a loro volta, devono “rendere conto” ai loro investitori e che, quindi, arrivano loro stessi ad orientare i mercati, scatenando le vendite, per poi, magari, far scattare le ricoperture. Un debito, evidentemente, il cui “costo”, ad oggi, è piuttosto modesto (per non dire quasi assente), essendo i rendimenti sotto zero o appena sopra. Cosa che “fa la differenza” (il nostro è sopra il 3,5%, con una previsione, per l’anno prossimo, sopra i 100 MD di interessi).
Ieri sera nuova chiusura positiva per gli indici americani, con lo S&P500 a + 0,6% (nuovo record), il Nasdaq a + 0,26% e il Dow Jones a + 0,83%.
Questa mattina il mercato giapponese è chiuso per festività.
In rialzo la borsa cinese (Shanghai + 0,55%), spinto dalla previsione di nuovi stimoli per aprire il mercato cinese a società straniere, e, a Hong Kong, l’indice Hang Seng (+ 0,34%).
Salgono anche i mercati di altri Paesi dell’area, con in testa la Corea (Kospi Seul + 1%).
Futures europei e americani intorno alla parità.
In leggero ribasso il petrolio, con il WTI a $ 82,45 (- 0,45%).
Stabile il gas naturale Usa ($ 1,742, – 0,29%).
In leggera risalita l’oro, a $ 2.162.
Spread a 123,9 bp, sopra i minimi dei giorni scorsi, con il BTP al 3,70% (da segnalare il collocamento “sindacato”, quindi riservato a operatori istituzionali, di € 5MD di BTP a 10 anni indicizzati all’inflazione, con una richiesta di ben € 41 MD, la più alta mai registrata per questa tipologia di emissioni).
Bund al 2,45%.
Treasury al 4,30%.
€/$ a 1,0871.
Continua la discesa delle criptovalute, con il bitcoin a $ 62.440, quasi $ 12.000 sotto il record di fine settimana scorsa.
Ps: continuano le pessime notizie sul fronte della piccola distribuzione. Secondo la Confcommercio, nel periodo 2012-2023, hanno chiuso i battenti ben 135.000 attività commerciali (111.000 negozi, pari a circa il 20% del totale, e 24.000 ambulanti, pari a oltre il 25% di quelli esistenti). A svuotarsi, come ben sa chi vive in città, soprattutto i centri storici. Tanti i motivi: il caro prezzi del settore immobiliare, che ha fatto lievitare i canoni di locazione, lo svuotamento, per la stessa ragione, dei centri storici, con gli abitanti che si trasferiscono in zone più accessibili, gli uffici vuoti per lo smart working, la crisi demografica e, forse l’elemento più grave, la concorrenza degli acquisti on line, che sta tagliando le gambe a molti esercenti. Un po’ quello che il granchio blu fa con le vongole nell’alto Adriatico, dove, oramai, i coltivatori di molluschi uno dopo l’altro stanno chiudendo i battenti…