Le aspettative di una prossima riduzione dei tassi americani, dopo la pubblicazione, la settimana scorsa, dei dati sull’inflazione è solo uno dei motivi che hanno portato 18 listini mondiali a toccare nuovi massimi.
Minori tassi vogliono dire, nei fatti, essenzialmente, 2 cose: maggiore liquidità e maggiori margini aziendali. Ulteriore “benzina”, quindi, per gli indici di borsa.
Partiamo dal secondo punto.
Già oggi (i mercati sono reduci dalle trimestrali) i dati aziendali hanno stupito, non poco, osservatori ed analisti per la loro positività: ovunque, nel mondo, con particolare riguardo alle quotate americane ed europee, gli utili hanno continuato a crescere. Guardando il nostro MIB 40, che raggruppa le 40 aziende a maggior capitalizzazione, ben il 50% ha superato le attese, il 40% è in linea, mentre solo il 10% ha deluso. In concreto, circa € 16 MD sono “finiti” nelle tasche degli azionisti, che, in molti casi, a loro volta, hanno “reinvestito” la liquidità, che, quindi, è tornata in borsa, facendo alzare a sua volta le quotazioni, in una sorta di “win win”, in cui non ci sono perdenti.
Il raggiungimento di margini aziendali così stupefacenti ha diverse origini. Certamente ci sono settori (vedi le banche) che traggono un indubbio vantaggio dal reiterarsi di tassi ancora elevati: come più volte ricordato, da una parte sono “tornate” a fare il “loro mestiere” (quello di prestare soldi guadagnando sul differenziale di tasso), dall’altra hanno, negli ultimi anni, convertito la molta liquidità presente sui conti in servizi a più alto margine. A cui vanno comunque aggiunti il contenimento dei costi, con la chiusura di molti sportelli (si calcola che in Molise in quasi l’80% dei comuni non sia presente uno sportello bancario) e la riduzione del personale, e, dall’altra parte, la diminuzione dei crediti incagliati e la cessione dei non performing loan, che hanno consentito di “liberare” capitale (non a caso oggi i nostri Istituti di credito hanno parametri creditizi tra i migliori in Europa).
Nel caso, invece, di altri settori, il fenomeno si spiega, oltre al contenimento dei costi (il Covid ci ha “consegnato” un mondo diverso, come lo “smart working” sta a dimostrare), anche con la capacità di “scaricare” sui prezzi gli aumenti delle materie prime e dei maggiori oneri, a cui non ha fatto seguito, in molti casi, un adeguato innalzamento degli stipendi (oggi, mediamente, i salari “reali”, nostro Paese sono al livello di quelli degli anni 90).
L’insieme di questi elementi fa sì che il nostro listino, nonostante sia tornato ai livelli del 2008, toccando i 35.000 punti, sia ancora “a sconto” rispetto a molti a quelli di altri Paesi europei, per non parlare di quelli americani: a Wall Street, lo S&P 500 vale 21 volte gli utili, rapporto che sale ben a 27 se si fa riferimento al Nasdaq.
In Europa, invece, siamo a 14; un rapporto che scende ulteriormente se riferito al nostro listino (9,5). Da qui trae origine la fiducia che ci sia ancora spazio per una crescita delle quotazioni.
Una realtà, quella dei mercati, che però si scontra con quella dell’economia.
Secondo Confindustria, nel 1° trimestre, la produzione industriale è arretrata dell’1,5%, a causa della diminuzione dei consumi interni (il mancato adeguamento salariale a cui si faceva riferimento in precedenza evidentemente un suo peso ce l’ha). L’unico settore che sembra crescere è quello turistico, con quello straniero che ha fatto segnare una crescita di oltre il 20% rispetto ai primi 2 mesi dell’anno scorso. Sono diminuite sia le importazioni (– 2,8%) che le esportazioni (– 0,8%), a conferma di un momento congiunturale non semplicissimo: ma il minor calo dell’export ha fatto da “contributore positivo” alla determinazione del PIL, che, nonostante il calo produttivo, si mantiene su una velocità di crociera, per il primo trimestre, dello 0,3%.
La settimana si apre con tutti i listini asiatici piuttosto ben intonati.
Il Nikkei di Tokyo si appresta a chiudere a + 0,72%; da notare che il decennale giapponese è arrivato a toccare il massimo dal 2013, facendo segnare un rendimento pari allo 0,97%.
Positivi i mercati great China: a Hong Kong l’Hang Seng si trova a 0,54%, mentre Shanghai fa segnare + 0,53%.
In crescita anche il Kospi di Seul e Sensex Mumbai, mentre è in leggero calo Taiwan.
Futures in rialzo su entrambe le sponde dell’Oceano, con il Nasdaq a “tirare” la volata (+ 0,18%): il mercato tech si sta preparando ai dati trimestrali di Nvidia, ormaia un “player” da $ 2.300 MD di capitalizzazione, in grado di “indirizzare” il mercato.
Petrolio sempre in ascesa, seppur a piccoli passi: il WTI oramai “vede” gli 80$ (79,91, + 0,29% anche questa mattina).
Gas naturale Usa oltre i $ 2,6 (2,672, + 1,60%).
Oro ai massimi storici ($ 2.445, + 1,05% il rialzo nei primi scambi odierni).
Spread a 128,8 bp, con il BTP a 3,80%.
Bund ancora in area 2,50%.
Treasury Usa 4,41%.
Leggera debolezza per il $, con l’€/$ a 1,0884.
Nel we ha “spiccato il volo” il bitcoin, con le quotazioni che questa mattina fanno segnare $ 67.000 (67.082).
Ps: tra neanche 1 mese si voterà per il rinnovo del Parlamento Europeo. Dopo l’impennata del 2021 e del 2022 (gli interventi a sostegno dell’economia a seguito del Covid evidentemente un risultato l’hanno avuto), la fiducia degli italiani verso l’Europa è tornata a diminuire: oggi siamo al 36%, il livello in cui si trovava nel 2012. Quello che stupisce è il dato relativo ai giovani: nella fascia di età 18-29 anni, infatti, ben il 59% crede nell’Unione Europea. Percentuale che scende al 42% nella fascia di età 30-34 anni e che “precipita” a 27 tra i 55 e i 64 anni.