Che la FED, dopo 4 anni di immobilismo, ieri avrebbe tagliato i tassi ormai era cosa pressochè scontata (tant’è vero che i prezzi dei vari asset – bond, azioni, oro – già “scontavano” la riduzione). L’incertezza, semmai, riguardava l’entità del taglio, compreso in un “range” tra lo 0,25 e lo 0,50%. Con una maggioranza ben più che “bulgara” (11-1, con 11 membri del Comitato Direttivo favorevoli – unica contraria Michelle Bowman, nominata da Trump), Powell ha sgombrato il campo dai dubbi, optando per la scelta più radicale.
Nella conferenza stampa che ha fatto da corollario alla riunione, il Presidente FED. Facendo un uso molto attento delle parole, ha detto di essere molto fiducioso sullo stato dell’economia americana: parole mirate a sgombrare il campo di chi sostiene che la decisione arriva in ritardo e che i “danni” arriveranno presto.
Dati alla mano, difficile non essere in linea con Powell: l’inflazione PCE (quella calcolata puntualmente mese per mese utilizzando un paniere di beni che si aggiorna in base alle abitudini di spesa dei consumatori, e quindi è più veritiero rispetto all’indice CPI, che, invece, variando ogni 2 anni, rimane sostanzialmente fisso) si muove con regolarità verso il famoso “target”, vale a dire l’obiettivo del 2%, rispettando la “tabella di marcia”. Cosa che “libera risorse” (il taglio dei tassi) per sostenere quello che oramai è diventato il vero elemento di preoccupazione per i policy maker “made in USA”: la difesa dell’occupazione, il passaggio obbligato per evitare la recessione. Ad oggi siamo ad un livello di disoccupazione del 4,2%, che potrebbe diventare il 4,4% per la fine dell’anno. Una percentuale che si dovrebbe confermare per l’anno prossimo, per poi scendere al 4,3% nel 2026. Movimenti assolutamente marginali, leggermente più negativi rispetto alle previsioni di qualche mese fa (peggioramento dello 0,2-0,3%), ma comunque abbondantemente entro il 5%, una percentuale considerata normale in regime di “massima occupazione”.
La riduzione dello 0,5% sposta “in avanti” le prospettive: si pensa, infatti, che da qui alla fine dell’anno la FED possa intervenire per un altro 0,50%, portando, quindi, i tassi di riferimento al 4,25/4,50% (dall’attuale 4,75/5%). Incerto, però, il timing: qualsiasi ulteriore decisione avverrebbe in tempi troppo vicini al 5 novembre, giorno in cui si svolgeranno le Presidenziali, cosa che scatenerebbe quasi certamente le ire della parte repubblicana, che punterebbe l’indice contro Powell, accusandolo di “partigianeria” verso la causa democratica (l’obiettivo del taglio è dare vigore all’economia, eliminando, o limitando fortemente, il rischio di una recessione: un’economia più forte distillerebbe fiducia ai cittadini americani, fiducia che si dovrebbe riversare in prevalenza verso la Casa Bianca a guida democratica), “bagnando”, quindi, le cartucce dell’ex Presidente, che fa del fallimento della politica economica di Biden (insieme ai temi migratori e alla politica estera) il suo cavallo di battaglia. Probabile, pertanto, che per vedere nuovamente le forbici in azione si debba attendere il 18 dicembre, con un taglio di un altro mezzo punto.
Se così dovesse essere, le previsioni sono per tassi al 3,25/3,50% per l’anno prossimo (un altro punto in meno) e al 2,75/3% (un altro – 0,50%), livello che dovrebbe essere il riferimento di lungo periodo.
Per quanto riguarda l’inflazione PCE, la “scalettatura” dovrebbe essere del 2,3% per quest’anno, 2,1% 2025 e 2% 2026, mentre quella “core” si confermerebbe un po’ più alta (2,6% per il 2024, 2,2% nel 2025 e 2% nel 2026).
Ecco allora spiegato il “migliore dei mondi possibili” secondo Powell. Un mondo, peraltro, che non tiene in considerazione i rischi geopolitici o, se li prende in considerazione, non li considera così impattanti sulla situazione economica, come se il mondo avesse imparato a conviverci e li valutasse a “somma zero”. Cosa che, viene da pensare, trova abbastanza d’accordo gli investitori globali, più preoccupati della situazione cinese che non di quanto avviene alle porte dell’Europa o sul campo minato medio-orientale, forse quello, in questa fase, a maggior rischio di perdita di controllo, come gli ultimi eventi fanno temere.
Dopo una prima, prevedibile, reazione positiva, ieri sera i mercati americani, un po’ a sorpresa, hanno chiuso leggermente negativi (Dow Jones – 0,25%, Nasdaq – 0,45%, S&P 500 – 0,29%): sulle chiusure potrebbe aver influito un poco l’effetto “sorpresa” per il taglio più deciso del previsto della FED. Infatti, questa mattina i futures sono molto ben impostati, con rialzi che a Wall Street vanno dallo 0,6% (Dow) all’1,50% (Nasdaq), con un effetto “trascinamento” in Europa (Eurostoxx + 0,76%, MIB + 0,69%, Dax + 0,38%).
In buona salute tutti gli indici asiatici, guidati dal Nikkei di Tokyo, che si accinge a chiudere a + 2,10%.
Hang Seng di Hong Kong + 1,89%.
In ripresa anche la Cina, con Shanghai a + 0.60%.
Sulla parità il Kospi di Seul.
Stabile il petrolio, con il WTI sempre in area $ 70 (70,28, + 0,47%).
Gas naturale Usa + 0,35%, a $ 2,296.
Oro sempre pronto all’assalto ai $ 2.600, assalto ieri fallito per poco, per poi ritracciare verso le quotazioni di questa mattina ($ 2.580).
Spread a 136,5 bp.
BTP a 3,58%.
Bund 2,18%.
Treasury Usa in marginale ritracciamento (3,71%).
Sempre in materia di tassi, oggi sono attese le decisioni della Bank of England, che dovrebbe lasciare invariate le cose, anche se non si può escludere un ulteriore ritocco verso il basso.
€/$ a 1,1134, con il $ in leggero ribasso.
Scatto del bitcoin, che balza a $ 62.260.
Ps: uno storico proverbio recita “beato il Paese che non ha bisogno di eroi”, un modo per esprimere la solidità e la partecipazione di una comunità che si fa, appunto, “Stato”. Però un Paese senza divi forse un po’ orfano lo è: la vita ha bisogno di sogni e i divi (quelli veri, non quelli che durano il tempo di un social…) in questo senso possono fare molto. L’Italia, in questo senso, non sta certo attraversando un periodo di “auge”. Ma almeno una, forse l’unica, è rimasta. E domani compie 90 anni. Auguri a Sophia Loren.