Il Maga (Make America Great Again) trumpiano giorno dopo giorno prende forma.
Ogni opera e ogni impresa hanno bisogno di “interpreti”. Siamo, quindi, nella fase del “casting”, in cui il Presidente eletto e, forse più di lui, Elon Musk (la sua “onnipresenza” stupisce anche gli osservatori più attenti: mai si era visto un Presidente condividere ogni passaggio in modo così “totalizzante”) stanno “selezionando” i candidati a ricoprire i ruoli preminenti dell’amministrazione.
Tralasciando qualsiasi considerazione sull’adeguatezza dei nomi che si leggono a ricoprire incarichi così delicati e determinanti (pensiamo alla Difesa, un “giochino” da $ 900 MD di budget e con circa 3 ML di dipendenti, o alla Sanità, per non parlare del Tesoro, per citare solo alcuni dei Ministeri che saranno chiamati a “tradurre” in pratica il “manifesto” trumpiano), possiamo notare come i mercati, come sempre, stanno iniziando a “fiutare” le mosse, soprattutto per quanto riguarda la politica economica, anticipandole e, di conseguenza, assumendo alcune posizioni.
Prendiamo il $. A fine settembre “viaggiava”, verso €, intorno a 1,12, in un “range” compreso tra 1,10 e 1,15.
Oggi siamo a 1,054, con un incremento di quasi il 6%. Una “prova di forza” che trova spiegazione nella convinzione che le politiche oltremodo “espansive” del tycoon (ricordiamole ancora una volta in estrema sintesi: riduzione dell’imposizione fiscale alle imprese – almeno quelle che “produrranno” i propri beni in Usa – dal 21% al 15%, imposizione di dazi, dal 10-20% all’export vso gli Usa delle imprese dell’area UE fino ad arrivare al 60% per quelle cinesi, contrasto all’immigrazione, cosa che, tra gli altri effetti, contribuirà a far aumentare le pressioni salariali) potrebbero (anzi, dovrebbero, essendo un “tipico caso di scuola” di politica inflazionistica, conseguenza, rispettivamente, di aumento del debito, aumento diretto dei prezzi, aumento dei salari) far “ripartire” l’inflazione (qualche segnale inizia ad intravvedersi, come hanno confermato i dati di ottobre). In un contesto simile, ovvio che le “certezze” in merito al ribasso dei tassi da parte della FED iniziano ad incrinarsi: se prima si pensava, tanto per fare un esempio, che entro al fine dell’anno Powell avrebbe dato seguito alle mosse delle settimane scorse con un nuovo taglio dello 0,50%, ecco che ora si parla dello 0,25%. E se, prima dell’esito elettorale, le previsioni erano per 5 tagli nel 2025 (per lo 0,25% ognuno), ad oggi siamo passati a soli 3 tagli. Quindi, se prima si ipotizzava, da qui a fine 2025, una riduzione complessiva dell’1,75 (0,50% 2024, 1,25% 2025), parlare dell’1% (0,25% 2024, 0,75% 2025) è diventata l’ipotesi più gettonata. Ovvio che, in una situazione del genere, il biglietto verde ne esca rafforzato (il che, sotto certi aspetti, andrebbe quasi contro la politica di Trump, che invece preferirebbe un $ debole per aiutare da una parte l’export USA – anche se, notoriamente, gli USA non sono grandi esportatori di beni, essendo, prima di tutto, “consumatori interni” – , dall’altra “fiaccare” l’export europeo e cinese (valute forti non aiutano l’export e, sotto certi aspetti, sono una forma di “dazi”, anche se limitati rispetto alle percentuali tanto propagandate).
Una diretta conseguenza delle politiche espansive è l’andamento del PIL: il loro obiettivo dichiarato, infatti, è produrre una crescita economica più forte. In questo senso già gli USA partono da una posizione di forza, in considerazione del fatto che, per il 2024, si pensa che chiuderanno ad un + 2,8% verso un ben più modesto + 0,8% dell’area UE. A “bocce ferme”, quindi al netto del “paradigma” di Trump, le previsioni per l’anno prossimo ci dicono che gli Stati Uniti dovrebbero crescere del 2,2% verso l’1,2% europeo. C’è da aspettarsi, pertanto, che il “gap” aumenti ulteriormente.
C’è poi il tema dei prezzi di borsa.
Il “post” elezioni ha oltremodo evidenziato (al di là delle “prese di beneficio” della settimana scorsa, fattore “salutare” per non correre l’effetto “bolla”) come il trend borsistico americano abbia ulteriormente accelerato. A favorirlo il fatto che la paventata riduzione delle tasse alle imprese americane produrrà, innanzitutto, un rialzo dei profitti aziendali, favoriti, anche, come detto, dall’aumento del PIL (e quindi dei ricavi aziendali).
Questo per quanto riguarda il “bicchiere mezzo pieno”.
Ma, a voler essere realisti, occorre guardare anche quello “mezzo vuoto”. E qui, a farla da padrone, incontrastata, è l’inflazione. Che se dovesse “scappare di mano”, non lascerebbe scampo, togliendo certezze e alimentando le preoccupazioni, a partire dalle Banche Centrali che sarebbero chiamate a ritornare frettolosamente sui propri passi, vanificando quanto fatto negli ultimi 6 mesi (a ben guardare bisognerebbe dire negli ultimi 15 mesi, visto che hanno “congelato” i rialzi a fine estate 2023).
Peraltro, il 5 novembre è ancora “dietro l’angolo”, per cui, in questa fase, tutto quello che succede nella parte repubblicana sconta “l’ondata populista”. Bisogna, quindi, vedere se da qui al 20 gennaio 2025, giorno della “presa della Casa Bianca”, Trump assumerà un atteggiamento più “morbido”, consapevole che gli equilibri mondiali passeranno, ancora una volta, dall’equilibrio americano. Senza contare quanto potrebbe accadere sul fronte geo-politico, in cui le affermazioni di sabato del Presidente Ucraino Zelensky (il cui livello di “gradimento” interno, va detto, è in forte calo), che ha dichiarato che è convinto che nel 2025, con Trump, la guerra finirà assomigliano, ancora una volta, a “profezie che si autodeterminano”, lasciando intendere che, di fatto, è pronto a sedersi al tavolo del negoziato.
Inizio settimana ancora una volta contrastato sulle sponde del Pacifico.
Il Nikkei di Tokyo “apre le danze” in calo di circa l’1%.
Lo segue, seppur a distanza (– 0,21%) Shanghai, mentre a Hong Kong l’Hang Seng reagisce con un + 0,77%.
A Seul il Kospi lancia segnali di forza (+ 2,16%), spinto da Samsung, la più grande realtà produttiva del Paese, che ha annunciato un piano di riacquisto di azioni proprie per oltre $ 7,2 MD.
Taiex Taiwan – 0,86%.
Futures sostenuti in Europa (Eurostoxx + 0,15%) e a Wall Street (sulla parità il Dow Jones, + 070% il Nasdaq).
Stabile il petrolio, con il WTI a $ 67,13.
Gas naturale Usa + 2,90% ($ 2.911).
In ripresa l’oro, dopo la peggior settimana degli ultimi 3 anni (con un ribasso intorno al 4%), che “passa di mano” a $ 2.590 (+ 0,70%).
Spread a 120,2 bp.
BTP al 3,55%.
Bund al 2,35%.
Stabile il Treasury, ancora nella parte “alta” della curva (4,42%).
€/$ a 1,0544.
Ancora in ottima forma il bitcoin, solidamente sopra i $ 90.000 (92.455).
Ps: a proposito di Bitcoin. Nell’era “paleolitica” per le criptovalute (era il 2010), in Gran Bretagna, avvenne quella che è ritenuta la prima transazione in criptovalute. Un episodio passato alla storia: successe che Laszlo Hanyecz, personaggio piuttosto noto dalla “community cripto”, pagò il conto in una pizzeria ($ 40) con 10.000 bitcoin. Il pizzaiolo, tal Jeremy Sturdivant, tenne un po’ i bitcoin. Poi, visto che nel frattempo erano saliti, decise di venderli e pagarsi una vacanza insieme alla fidanzata. Se li avesse tenuti, oggi si ritroverebbe una fortuna di $ 920 ML circa. Si potrebbe dire che mai pizze sarebbero costate così tanto (altro che Crazy Pizza e la pizza Pata negra a € 65….). Ma ognuno, come ben sappiamo, è padrone del proprio destino.