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Il bitcoin, la più nota e diffusa tra le cripto-valute, ha iniziato a “vivere” nel 2008. A “inventarlo” un programmatore la cui vera identità non è nota e che si nasconde dietro lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto (un po’ come la scrittrice Elena Ferrante, su cui si fanno molte congetture, ma di cui nessuno può mettere la mano sul fuoco su chi veramente sia).

Ogni giorno si producono 900 bitcoin, pari a 6,25 bitcoin per ogni “blocco di transazioni” (una sorta di “registro digitale”, chiamato blockchain, che si realizza ogni 10 minuti).

Da domani, alle ore 21:48, la produzione si dimezzerà: per la 4° volta, infatti, avverrà “l’halving”, vale a dire, letteralmente, il dimezzando della produzione. Un fenomeno previsto e “programmato” all’atto della nascita della criptovaluta, che avviene ogni 4 anni (ovvero ogni 210.000 “blocchi di transazione”): si passerà, quindi, a 450 bitcoin giornalieri, pari a 3,125 per ogni “blocco”. L’ultimo halving è programmato per il 2140, quando le monete in circolazione saranno circa 21 ML: a quel punto la “miniera” sarà a tutti gli effetti prosciugata. Ad oggi i bitcoin in circolazione sono circa 19,5ML: ne mancano, cioè, “solo” 1,5 ML per arrivare all’esaurimento. Da qui, evidentemente, l’effetto “scarsità” che potrebbe concorrere alla crescita delle quotazioni (oggi il controvalore complessivo è pari a circa $ 1.200 MD, dato dal numero di monete in circolazione, appunto 19.5 ML, per un valore unitario di $ 61.000, la quotazione di questa mattina – ma circa 15 giorni fa era di $ 74.000 circa, pari a circa $ 1.450 MD).

Non sono pochi coloro che giudicano il bitcoin (o le criptovalute in genere) l’equivalente dell’oro in termini di “bene rifugio”.

La considerazione parte dal presupposto che i 2 asset sono accomunati dall’effetto scarsità.

Si stima che in circolazione ci siano circa 197.576 tonnellate di oro, per una produzione annua di circa 3.500 tonnellate. Il metodo più usato per misurare “l’effetto rarità” viene definito stock to flow, che si ottiene misurando la quantità esistente già “estratta” (stock) con la quantità prodotta annualmente (flow). Si ottiene, quindi, un rapporto di 56,45: significa che, ai livelli produttivi attuali, occorrerebbero 56,45 anni per arrivare ad estrarre i quantitativi oggi esistenti.

Applicando la stessa teoria al bitcoin, si arriverebbe, oggi, a 118: circa il doppio di quanto necessario per l’oro. Ma, già sapendo che periodicamente la produzione continuerà a dimezzarsi, ecco che “l’effetto scarsità” diventa “concreto”, cosa invece più difficile da stabilire per l’oro, e soprattutto diminuirà di anno in anno.

Rimane, peraltro, come facilmente intuibile, una profonda differenza tra i 2 asset, che li rende quasi diametralmente “opposti”: la loro “fisicità”.

L’oro è il “bene rifugio” per eccellenza in quanto “bene reale”: fa, quindi, della “tangibilità” una delle sue prerogative principali (l’altra, appunto, è la sua rarità).

Nel caso del bitcoin, come di qualsiasi altra criptovaluta, la condizione essenziale è proprio la sua “intangibilità”: è (sono) prodotto da un computer, che, tra l’altro, essendo potentissimo, assorbe una quantità di energia enorme. Al punto che, al di là dei fattori inquinanti, i costi produttivi, a causa anche della riduzione della produzione, possono diventare determinanti, mettendo “fuori mercato” alcuni “minatori” , intendendo come tali quelle società che sono autorizzate ad “estrarre” i bitcoin.

Al di là delle considerazioni “filosofiche” piuttosto che sulla tangibilità o meno dell’asset, la domanda che molti si pongono è su quali basi si poggia il “valore” della criptovaluta, non basandosi su “sottostanti” reali o che abbiano un contenuto economico-finanziario. Senz’altro il fatto che tra non molti anni saranno sempre più difficili da reperire contribuisce non poco a far crescere il “prezzo”. Poi c’è una sorta di “effetto moda”, oltre alla “novità”: il fatto che molti personaggi, sia del mondo economico e produttivo, piuttosto che dello spettacolo, abbiano investito in criptovalute provoca certamente un effetto “emulazione”. Ma forse ancor di più conta il fattore “liquidità”: si è notato, infatti, che gli investimenti nel settore tendono a crescere nel momento in cui le politiche monetarie si fanno meno restrittive, con un aumento delle masse monetarie in circolazione. Come dire, aumento la quota investita in “capitale di rischio” (e nulla, forse, più delle criptovalute, meglio si indentifica in questi asset) nel momento in cui la base monetaria è maggiore (o perché l’accesso al credito è più semplice o costa meno ovvero quando mi ritrovo ad avere surplus di capitale da investire). A tal proposito, un’ultima considerazione più ulteriormente aiutare a comprendere il fenomeno. Si calcola che gli asset liquidi (il totale degli asset in circolazione) sia pari a circa $ 191.000 MD: di questi, quelli attribuiti alle criptovalute non arrivano a $ 2.000 MD. Siamo, quindi, nell’ordine dell’1%, una percentuale, in fin dei conti, non così elevata.

Passando alla “tangibilità” dei mercati, nonostante le chiusure negative di ieri sera a Wall Street (Nasdaq – 1,24%, Dow Jones – 0,12%, S&P 500 – 0,58%), questa mattina le piazze asiatiche sono tutte in rialzo. A determinarne l’andamento positivo una dichiarazione a “3 voci” dei Ministri delle Finanze di Giappone, Stati Uniti e Corea del Sud sulla situazione dei cambi e sulla volontà di controllare i loro movimenti.

A Tokyo il Nikkei sale dello 0,31%.

A Hong Kong l’Hang Seng, invece, cresce dell’1,16%, mentre Shanghai è a + 0,28%.

Il Kospi di Seul “tira la volata” con un + 2,20%.

Tutti ben impostati di futures, con rialzi nella forchetta + 0,40-0,60%.

Ieri caduta del petrolio, con il WTI sceso di colpo intorno a $ 82,77 (stabile questa mattina).

Gas naturale in recupero, a $ 1,741, + 1,46%.

Oro sempre in area $ 2.400 (2.393).

In recupero lo spread, questa mattina a 137,9 bp.

BTP a 3,87% dal precedente 3,94%.

Bund invariato, a 2,47%.

Recupera il treasury, al 4,58% da 4,64%.

Si indebolisce nuovamente il $, a 1,069 vs €.

Bitcoin a $ 60.939, in leggera flessione anche questa mattina.

PS: era il 20 aprile 1964. Quel giorno venne prodotto il primo vasetto di nutella (oggi forse, insieme al nome Ferrari, il “brand” che meglio identifica l’italianità).  Se ne producono 500.000 tonnellate l’anno (di cui 300 giornaliere solo nella stabilimento di Alba), ed è venduta in 170 Paesi nel mondo e produce oltre € 14 MD di ricavi. E’ il prodotto che ha maggiormente contribuito a far crescere e conoscere la Ferrero. Un marchio presente in 11 Paesi nel mondo, con dipendenti di 97 nazionalità diverse: “made in Italy” world wide.

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ultimo aggiornamento: 18-04-2024


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