Qualche mese fa Ursula von der Leyen, Commissario UE, il cui incarico è prossimo alla scadenza (tra un paio di mesi si rinnoverà il Parlamento europeo), ha affidato a Mario Draghi di redigere uno studio sulla “competitività” della UE. Un incarico che, in considerazione del prestigio della persona chiamata a ricoprirlo, è andato via viaad assumereuna valenza sempre maggiore.
Il “manifesto” di Draghi ieri è stato presentato, almeno in parte, durante un suo intervento tenuto nei pressi di Bruxelles. Agli occhi di molti è parso un vero e proprio “programma” per l’Europa che verrà. Le sue considerazioni, infatti, partono dall’assunto che il “modello di Europa” oggi in essere sia oramai superato e non in grado di tenere il passo con gli altri “blocchi” (in primis Usa e Cina, nonostante quest’ultima stia attraversando un periodo piuttosto complicato). Senza una maggiore integrazione tra i Paesi membri, in grado di prevedere budget comuni e condivisi sulla difesa, con forti investimenti sulle tecnologie e sul digitale e emissione di debito comune a suo dire la battaglia è persa. Oltre al fatto che il “il processo decisionale è stato concepito nel mondo di ieri”, rendendo oggi l’Europa una sorta di “dinosauro” non in grado di tenere il passo con le principali economie al mondo.
Non pochi osservatori politici interpretano la presentazione di Draghi come il primo passo verso un’investitura per il ruolo di Commissario Europeo. Prestigio, credibilità e autorevolezza di certo non mancano all’ex Presidente della BCE (e di molte altre cose), qualità che gli consentono di tener testa ai principali leader mondiale. La sua “trasversalità” alla politica rimane il suo “lato debole”, non appartenendo ad alcuno schieramento politico: elemento da molti ritenuto determinante per poter ambire a ricoprire un ruolo assolutamente “politico”. Oltre al fatto che, come a molti noto, non è persona che ami essere “tirato per la giacchetta”.
Il “presente” (non solo dell’Europa) è contraddistinto, come ovvio, dalle vicende geopolitiche e da quelle macroeconomiche.
In molti danno pressoche certa una risposta armata di Israele agli attacchi missilistici dell’Iran di sabato scorso. Si tratta di definire la loro portata: se, cioè, avranno una valenza prevalentemente “politica” (non temiamo niente e nessuno, anzi, se c’è qualcuno che deve avere paura siete voi) ovvero una assolutamente “militare”, portata per distruggere in maniera mirata siti nucleari e/o “luoghi simbolo” per quel Paese.
I mercati continuano a non essere particolarmente preoccupati su questo fronte, non dando segni di particolare nervosismo, come dimostrano le chiusure di ieri sera a Wall Street e l’andamento delle piazze asiatiche questa mattina.
Più attenti, invece, sembrano essere verso la situazione macroeconomica. Rispetto alle stime e alle attese di molti analisti, infatti, le cose sembrano procedere in modo un po’ diverso, soprattutto negli USA.
La forza della crescita americana (secondo le stime del FMI quest’anno dovrebbe toccare il + 2,7%, un altro 0,6% in più rispetto alle previsioni, già aumentate (2,1%) verso le precedenti (1,4%). Un’ulteriore “grana” per Powell sulla strada della riduzione dei tassi, dopo che l’inflazione, in questa prima parte dell’anno, non solo è “appiccicosa” ma ha ripreso a salire. A tal proposito va specificato che l’aumento non è dovuto all’evolversi della situazione geopolitica, ma proprio alla forza dell’economia, con i consumi che non accennano a diminuire, a dimostrazione di una situazione occupazionale molto buona, che, a sua volta, genera “fiducia”. A proposito degli aumenti generati dalle crisi geopolitiche, un’analisi storica dimostra che dopo un primo forte incremento dei prezzi, immediatamente successivo al “fatto”, si verifica una consistente caduta, dovuta alle preoccupazioni sulle ricadute economiche, con il rallentamento dell’economia mondiale e del commercio. Per esempio, l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 portò all’incremento dei prezzi del petrolio del 5%, pari a 5 volte la media giornaliera del Brent tra il 2000 e il 2023. Per poi scendere del 25% nell’arco dei successivi 14 giorni.
Ancora più evidente quanto si è verificato dopo l’attacco russo all’Ucraina: nel giro di 2 settimane i prezzi sono saliti del 30%, per poi, nei 2 mesi successivi, riportarsi ai valori pre-invasione.
Quindi, di fatto, le crisi geopolitiche, dopo una prima fiammata, portano “disinflazione”.
Per ora, comunque, parlare di discesa dei tassi dalle parti di Washington è certamente prematuro: da qui il rialzo dei rendimenti degli ultimi giorni dei Treasury, di nuovo vicini al 5%, con un effetto “trascinamento” sui rendimenti europei. Europa dove, invece, a giugno, salvo smentite dell’ultima ora dovuta a situazioni nuove, ad oggi poco probabili, la BCE dovrebbe iniziare la “svolta”. L’inflazione, infatti, continua la sua marcia (anche se non proprio “regolare”) verso il target del 2%, mentre la crescita prosegue piuttosto faticosamente (+ 0,8%, sempre secondo le stime del FMI). Difficile che Christine Lagarde si limiti, questa volta, a “guardare”: per una volta dovrà essere lei a fare da “lepre” rispetto a Powell.
Chiusure poco mosse ieri sera a Wall Street, con tutti gli indici intorno alla parità.
Più “variegato”, questa mattina, il panorama asiatico.
A Tokyo il Nikkei anche questa mattina lascia sul terreno l’1,32%, nonostante la debolezza dello yen, ai minimi dal 1990.
Debole anche la borsa di Hong Kong, con l’Hang Seng che scivola dello 0,36%.
Cresce, invece, Shanghai, in rialzo dell’1,87%, così come il Taiex di Taipei.
Sulla parità il Kospi di Seul.
In leggero ribasso i futures, sia di qua che di là dell’Oceano.
Scende il petrolio, con il WTI a $ 84,97 (- 0,56%).
Gas naturale Usa a $ 1,69 (- 2.60%).
Oro a $ 2.394, – 0,63%.
Spread sempre sopra i 140 bp (141,5).
BTP a 3,94%.
Bund a 2,48%, in ulteriore ampliamento.
Treasury sempre ai massimi da novembre (4,65%).
Leggerissimo recupero per l’€, che si porta a 1,0628 vso $.
Bitcoin che non riesce a ritrovare la forza degli ultimi mesi, “bloccato” sempre intorno ai $ 64.000 (63.970).
Ps: chi, invece, una certa “forza” dovrebbe averla è Carlos Tavares, l’AD di Stellantis. L’assemblea degli azionisti, infatti, ieri, oltre ad aver approvato i conti, ha deliberato l’emolumento del manager: nel 2023 ha guadagnato € 13,5 ML, a cui si deve aggiungere un premio per il raggiungimento di obiettivi pari ad € 10 ML. Che porta il guadagno di un anno a € 23,5 ML. Oltre ad altri 13 ML che potrebbero arrivare al raggiungimento di altri obiettivi fissati per il 2025. La riforma Fornero per lui non dovrebbe essere un problema.