Direttore: Alessandro Plateroti

Partiamo con il dire che tra il fallimento della Silicon Valley Bank ed il crollo di ieri delle quotazioni, avvenuto nella giornata di ieri, di Credit Suisse non c’è alcun nesso (fatto salvo, se si vuole essere precisi, l’impatto nelle quotazioni del titolo della banca svizzera, che lunedì, nel momento in cui la crisi della Banca californiana è stata confermata, hanno perso circa il 12%).

Né la vertiginosa caduta è stata causata, come nel caso americano, da una fuga di liquidità o ritiri di capitali da parte dei clienti: parliamo di un Istituto con asset totali pari ad oltre 531 MD di franchi svizzeri, attivi per 531 MD, passivi (depositi) per 486 MD. Numeri che portano la banca svizzera ad essere definita da Nouriel Roubini, l’economista americano di origini turche, “troppo grande per fallire, ma anche troppo grande per essere salvata”.

E anche il forte rialzo dei tassi, all’origine dei problemi per la Silicon Bank, ha avuto un impatto non superiore a quello che tutto il sistema bancario ha accusato (e che sta facendo venir meno alcune certezze da parte delle Banche Centrali in merito all’opportunità di confermare nuovi sostenuti aumenti).

Il “profondo rosso” di ieri (che, viste le dimensioni della banca, non poteva non avere ricadute sui mercati internazionali, con particolare riguardo, evidentemente, al comparto bancario, soprattutto – e  anche qui non scopriamo “l’acqua calda” – quello dei cosi detti “Paesi periferici”) è partito nel momento in cui il suo maggior azionista, la Saudi National Bank (SNB ,che detiene il 9,88%, controllata a sua volta dal Fondo Sovrano dell’Arabia Saudita), per bocca del CEO Ammar Al Khudairy, ha dichiarato che “non ritiene necessario fornire nuovi supporti finanziari, per molti ragioni, la prima delle quali è che ci sarebbero complicazioni regolamentatorie” (va detto che ad ottobre era stato sottoscritto un aumento di capitale pari ad 4MD di franchi svizzeri, di cui 1,5MD “coperti” dal nuovo azionista).

Parole che, evidentemente, hanno spaventato non poco i mercati, che hanno lanciato la “ritirata”, con le azioni della Banca svizzera che sono arrivate a perdere oltre il 30%, per poi in parte recuperare, chiudendo, comunque, a – 24%, toccando le quotazioni più basse dalla sua nascita (avvenuta nel 1856).

Soltanto 15 anni fa le azioni di Credit Suisse valevano 80 franchi, 5 anni fa 15, ieri la “miseria” di 1,7. Nel 2007, in termini di capitalizzazione, l’istituto svizzero era all’8° posto al mondo: ieri, nel momento di maggior ribasso, era sceso al 155° posto, con una capitalizzazione di circa 6,83MD di Franchi Svizzeri (circa € 7MD): in 15 anni sono stati “bruciati” circa 100MD di franchi svizzeri. Secondo il Financial Times che se fosse scomparsa, nel “pianeta bancario” un istituto come Goldman Sachs.

La crisi di Credit Suisse ha origini lontane e, come quasi sempre succede, molteplici: un misto di leggerezza, “mala gestio”, mancanza di controlli, affari loschi. Si va dal riciclaggio di denaro sporco (traffico di cocaina da parte di un gruppo malavitoso bulgaro), alla falsificazione di documenti, con condanna a rimborsi miliardari (una vicenda che ha coinvolto anche l’ex primo ministro della Georgia, Bidzina Ivanishvili), alla frode ai danni di molti investitori per aver finanziato operazioni dubbie in Mozambico, ad operazioni, sempre in Mozambico, tenute segrete al Fondo Monetario Internazionale. Per arrivare, nel 2021, all’operazione che ha fatto scattare l’emergenza, oltre che all’inevitabile perdita di fiducia da parte di molti clienti e investitori: il finanziamento, per circa 5,5MD di franchi svizzeri, del Fondo di Family office (i Family office sono – o dovrebbero essere – delle “boutique finanziarie” per “pochi eletti”, per lo più famiglie miliardarie, o per lo meno, multi milionarie, che decidono di farsi assistere da esperti, che creano “vestiti finanziari” su misura) Archegos Capital Management, il cui fondatore, il finanziere americano di origini coreane Bill Hwuang, viene arrestato per aver fatto scomparire decine di miliardi di investimenti, dopo la malaugurata decisione di investire in strumenti derivati. Come se non bastasse, si aggiunge il fallimento della Greensill, società anglo-australiana, che si vantava di essere un innovatore fornitore di servizi finanziari: un altro “buco” da 300ML. Insomma, milione dopo milione, miliardo dopo miliardi, perdite gigantesche, che hanno intaccato l’immagine dell’Istituto e minato la fiducia dei propri clienti prima ancora che il patrimonio (per il quale, come detto, è stato posto rimedio non più tardi di ottobre, con un aumento di capitale poderoso.

Ieri sera la BNS (la Banca Centrale Svizzera), insieme a Finma (l’autorità federale di vigilanza sui mercati finanziari svizzeri: le banche svizzere, non appartenendo la Confederazione elvetica alla UE, non sono assoggettate ai controlli della BCE), ha dichiarato che i “problemi del Credit Suisse non comportano problemi di contagio”, dando comunque la propria disponibilità a fornire linee di credito laddove la banca lo richiedesse, dopo che i vertici di Credit Suisse avevano cercato, evidentemente invano, di rassicurare i mercati, dichiarando che tutti i requisiti patrimoniali era salvaguardati e che la banca non corre alcun rischio.

La vicenda elvetica non lascia comunque indifferenti le autorità di controllo europee (che ieri si sono mosse immediatamente, richiedendo agli istituti di credito europei di fornire informazioni sul loro coinvolgimento in termini di operazioni come “controparti” della banca svizzera). Oggi si riunisce il board della BCE, chiamato a deliberare il nuovo aumento dei tassi per sconfiggere l’inflazione. Quella che sembrava una decisione ormai presa (rialzo dello 0,50%) questa mattina non sembra così certa: si parla, infatti, della possibilità che ci si fermi allo 0,25%. Un po’ quello che potrebbe succedere, la settimana prossima, in USA, dopo le note vicende di pochi giorni fa, con la FED chiamata a combattere l’inflazione cercando di “salvaguardare” le banche.

Dopo la “caporetto” di ieri, con alcuni listini (vedi il nostro, ancora una volta “l’anello debole”, in considerazione del “peso” del settore bancario-finanziario in termini di capitalizzazione sul nostro listino, oltre che per i problemi “endemici” che ci portiamo dietro come Paese – tanto per fare un esempio, il nostro pesantissimo debito pubblico) che sono arrivati a perdere quasi il 5%, questa mattina i futures sembrano aver voglia di recupero.

E anche le borse sembrano partire con il piede giusto, con rialzi sostenuti (MIB + 2,3%).

Le borse asiatiche nella notte avevano dato segnali di debolezza, senza peraltro essere prese dal panico (ribassi mediamente intorno all’1%, con il picco di Hong Kong a – 1,64%).

Ieri caduta verticale, invece, per il petrolio, tornato ai livelli del 2021: WTI a $ 68,24, in rialzo, questa mattina, dello 0,84%.

Gas naturale americano a $ 2,478, + 1,44%.

Gas naturale europeo a € 45,05 al megawattora, – 4,96%.

Spread a 187bp. Il “recovery” verso porti sicuri” (bund e Treasury Usa) ha schiacciato i rendimenti, con il bund tedesco al 2,10% e il Treasury al 3,48% dal 3,68% di ieri.

BTP decennale al 4,09%.

€/$ a 1,063, dopo che ieri il biglietto verde era arrivato a toccare 1,052.

Bitcoin in tenuta, a $ 24,720.

Ps: a volte ritornano. Parliamo del Ponte sullo Stretto. Nel 2024 verrà presentato un nuovo progetto esecutivo per un’opera di cui si parla da decenni, che dovrebbe essere chiamata a cambiare l’Italia, almeno per quanto riguarda i collegamenti. Per ora ha cambiato solo i bilanci, viste le spese colossali sostenute fino ad ora per le varie progettazioni,  per non parlare delle penali pagate a chi, in questi anni, ci ha lavorato, con una società creata ad hoc (la Stretto di Messina SpA) messa in liquidazione dal Governo Monti nel lontano 2013.

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ultimo aggiornamento: 16-03-2023


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