Capire e gestire il cambiamento, magari “giocando d’anticipo”: questo, probabilmente, è il ruolo del management, sia che si tratti di un’azienda che di un’Istituzione. Certamente un compito tra i più difficili, visto che “del doman non v’è certezza”, come scriveva Lorenzo de’ Medici, il Magnifico (seppur il contesto a cui faceva riferimento quello che indubbiamente è stato uno dei personaggi più illuminati del Rinascimento italiano era ben altro).
Né più né meno quello che i mercati (e quindi gli investitori, che non si identificano solo nelle Banche d’affari e le case di investimento) richiedono a chi è chiamato a guidare la politica monetaria: capire qual è il momento giusto per intervenire. Un “sentiero” spesso stretto e “viscido”, che, se non percorso con attenzione, può portare “a sbattere”, in un verso o nell’altro, portando alla “depressione economica” o a perdere la lotta all’inflazione.
A guardare quanto è successo ieri sembra che i mercati un’idea se la siano fatta, e piuttosto precisa.
I dati sull’inflazione Usa, per la 1° volta da inizio anno, hanno segnato il passo, con i prezzi al consumo scesi dal 3,5% al 3,4%: una “limatura” di 1 decimo di punto, sufficiente, però, a far cambiare idea sullo “scenario” dei prossimi mesi. In un attimo la percentuale di chi, tra gli osservatori americani pensa che la FED possa ridurre i tassi di almeno 50 punti base, è aumentata di 10 punti, passando al 66%. Ed è cresciuto anche il numero di chi pensa che la Banca Centrale possa muovere il primo passo a luglio o a settembre, rispettivamente il 30 e il 70% (si da invece per scontato che a giugno nulla succederà).
Fatto sta che la giornata di ieri si è trasformata in una “marcia trionfale”: se lunedì erano 9 i listini che, in giro per il mondo, avevano ritoccato i loro massimi storici, ieri sono raddoppiati (ma se comprendiamo quelli che li avevano già raggiunti e poi sono leggermente ripiegati si arriva a 22).
Riconoscere il merito solo ai dati americani sarebbe piuttosto riduttivo. Diverse, infatti, sono le ragioni.
Innanzitutto la “stagione delle trimestrali” si sta confermando piuttosto positiva. Negli USA, ad oggi, oltre il 79% delle aziende ha battuto le stime, con dati dell’8,35% superiori alle stime. Ma anche in Europa non siamo messi così male: il 58% delle società ha fatto meglio del previsto, con un “up-grade” dell’8%. Numeri che confermano, una volta di più, di come il ciclo economico goda di una buona salute, senza però dar adito ad una crescita “esagerata”: un’altra buona ragione, per Powell, per mettere in cantiere, da qui a fine anno, un paio di tagli.
Frenata dell’inflazione, buona salute dell’economia (senza esagerare), previsioni di sempre più probabili tagli dei tassi sono una miscela che contribuisce a creare un clima mai così positivo da 3 anni a questa parte, con una percentuale di ottimisti sempre più maggiore tra i grandi gestori globali.
Senza contare che la liquidità globale continua a rimanere a livelli più che considerevoli: vero è, come noto, che le famiglie americane e le Banche Centrali hanno “chiuso i rubinetti”, ma, grazie all’intervento di Cina e Giappone, i “vasi comunicanti” continuano a funzionare piuttosto bene.
Fermo restando il “bicchiere mezzo pieno”, è sempre opportuno non farsi trascinare dall’entusiasmo. Non va sottovalutato, quindi, il fatto che i consumi americani qualche segnale cominciano a darlo: vedere che si spende meno per il tempo libero, per i beni personali e per la casa sta a significare che le risorse stanno finendo (se non sono già finite, vedi il dato sui default dei prestiti o delle carte di credito). Ragioni che possono riportare in auge la logica del “tanto peggio tanto meglio”: più le cose vanno male per l’economia più aumentano le probabilità che vadano meglio per i mercati, sull’ipotesi di tagli non più rinviabili.
I rialzi di ieri sera a Wall Street hanno contribuito a far sì che lo S&P 500 e il Nasdaq siano tra i 18 indici mondiali che hanno ritoccato i massimi di sempre: lo S&P 500 è salito dell’1,2% mentre il Nasdaq ha fatto ancora meglio, a + 1,49%. Un po’ più indietro il Dow Jones, che si è fermato a + 0,88%.
Questa mattina i listini del Pacifico sembrano continuare la corsa americana: a Tokyo il Nikkei sale dell’1,39%, a Hong Kong l’Hang Seng fa + 1,71%. Poco mossa invece Shanghai, intorno alla parità.
Salgono Taiwan (+ 0,7%), così come il Kospi di Seul; fa meglio Sidney, con + 1,2%.
Poco mossi i futures, con quelli americani appena sopra la parità e quelli europei un po’ più indecisi.
Petrolio in risalita, con il WTI in marcia di avvicinamento verso gli 80$ (79, + 0.36%).
Gas naturale Usa $ 2,406, – 0,58% questa mattina.
Oro ad un passo dai $ 2.400 (2.393).
In ribasso, ieri, spread e tassi.
Quello tra il nostro BTP e il Bund si è “ristretto” a 130 bp, con il BTP al 3,73%.
Bund a 2,42% dal 2,55%.
Treasury al 4,32% dal 4,43%.
€/$ a 1,0878, con l’€ ai massimi da 5 settimane.
Spicca il volo il Bitcoin, che, nella giornata di ieri, è tornato a $ 66.000 (livello confermato questa mattina, a $ 65,.974).
Ps: con il recupero degli anni “post-covid” il nostro PIL pro-capite è tornato ai livelli del 2007. Ci sono voluti, quindi, ben 17 anni per recuperare i livelli “pre-Lehman”. La Francia e la Germania ci erano arrivate già nel 2011-2012, mentre la Spagna ci ha messo 5 anni in più, anche se poi ha “ingranato la marcia” e oggi ci ha nettamente staccato, portandosi quasi ai livelli delle 2 principali economie della UE. Sarà casuale, ma il nostro indice MIB proprio ieri ha toccato i nuovi massimi dal 2008 (ma rimane ancora ben distante dai massimi storici del 2001).