La giornata di ieri, iniziata un po’ ovunque (fatte salve alcune chiusure sui mercati del Pacifico) sotto i migliori auspici, ma conclusa, al di là dell’Oceano, ai minimi di giornata (Dow Jones – 0,65%, Nasdaq – 1,65%, S&P 500 – 1,20%), è piuttosto indicativa in merito alla volatilità che, in questo periodo, accompagna i mercati. Molteplici, come ben sappiamo, le ragioni: alle “consuete” tematiche squisitamente economico-finanziarie-monetarie, si sono aggiunte quelle geopolitiche. In Medio oriente, dopo l’attacco iraniano ad Israele, annullato dall’efficienza del sistema antimissile Iron Dome, tutto è ancora in discussione, dopo le dichiarazioni del Premier Netanyahu che, terminato il Consiglio di guerra che si è tenuto il 14 aprile, ha affermato che la risposta di Gerusalemme non si farà attendere e che sarà un attacco mirato. Con l’Iran che ha immediatamente replicato minacciando ulteriori ritorsioni se ciò dovesse accadere. Resta da definire quanto si tratti di dichiarazioni che rientrano nel lessico politico/propagandistico o se, invece, rappresentano le vere intenzioni di Israele. Su cui continua non solo il pressing diplomatico Usa, ma anche la consapevolezza che, in caso di escalation militare, verrebbe meno la neutralità, se non addirittura il sostegno di alcuni Paesi arabi più moderati (come la Giordania, gli Emirati Arabi e persino l’Arabia Saudita, a sua voltabisognosa com’è del supporto del mondo occidentale).
Un insieme di elementi che si intersecano, generando sui mercati andamenti a volte non semplici da decifrare.
Prendiamo la situazione americana. Ormai è chiaro a tutti che l’economia stelle e strisce non solonon conosce rallentamenti, ma cresce a ritmi sorprendenti, con il PIL 2024 rivisto al rialzo del 50%, passando dall’1,4% al 2,1%.
La disoccupazione continua a rimanere nei pressi del minimo storico, ben sotto il 4% (ultimo dato 3,8%). Di contro, l’inflazione non molla la presa, dando vita ad un fenomeno del tutto simile alla reflazione, vale a dire il ritorno, per quanto al momento contenuto, di prezzi in aumento. Le cause vanno individuate nella politica fiscale dell’Amministrazione Biden, alla disperata ricerca della riconferma alle prossime elezioni presidenziali: da una parte “spinge” la crescita, aumentando, di fatto, il denaro in circolazione, dall’altra “paga” pegno, essendo la principale responsabile dell’aumento dei prezzi. Le paure, per gli investitori, è che, di questo passo, il tanto previsto (e desiderato) taglio di tassi possa nuovamente allontanarsi, con grande delusione di analisti e, ancor di più, investitori, che oramai assaporavano politiche monetarie più espansive. Una delusione resa ancora più forte dall’illusione, non più tardi, di 4/5 mesi fa, che i tagli potessero essere almeno 6.
Ecco, quindi, che, negli USA, i tassi, per il momento, non solo non diminuiscono, ma, seppur lievemente, tornano a crescere, al punto che il treasury sta ritornando verso il 5% (ieri 4,6%), anche se difficilmente lo rivedremo a quel livello.
A sua volta, il fatto che i tagli, da parte della FED Usa, possano allontanarsi da nuova forza al $, che, infatti, si è portato a 1,061 verso €, il livello più basso (cioè di maggior forza) degli ultimi 5 mesi.
Ma non finisce qui: un $ forte fa aumentare il costo delle materie prime, da quelle energetiche a quelle industriali (rame, ferro, alluminio, etc): un effetto domino che potrebbe favorire anche in Europa la ripartenza dell’inflazione. Con la differenza che da noi la salute dell’economia è meno buona, con la BCE che a giugno molto probabilmente non potrà più rimandare la decisione.
In questo contesto macro-economico si inseriscono, come detto, le rinnovate tensioni geopolitiche medio-orientali, la cui attualità sta “oscurando” il conflitto ucraino, con la Russia che, con l’inverno ormai finito, potrebbe conquistare nuovi territori.
Difficile definire la linea di confine, per quanto riguarda l’impatto sui mercati, tra le 2 forze in campo (geopolitica vso economia): a vedere la giornata di ieri l’inversione di tendenza sembrerebbe dovuta principalmente alle vicende macroeconomiche, ma di certo il timore che si possano ripetere azioni militari, da una parte o dall’altra, non lascia tranquilli gli operatori, rendendo nervose le piazze finanziarie.
Le chiusure negative di ieri sera a Wall Street fanno sentire il loro peso questa mattina sul Pacifico, con tutti gli indici in rosso.
A Tokyo il Nikkei perde circa il 2% (- 1,94%).
Peggio fa, a Hong Kong, l’Hang Seng, che arretra di oltre il 2,3%.
Un po’ meglio va a Shanghai, dove il calo si ferma, per il momento, all’1,53%.
Futures ovunque in rosso. Più contenuti i cali a Wall Street, dove in questi minuti arretrano dello 0,20/0,30%.
Più pesanti quelli europei, che si allineano alle perdite americane di ieri sera.
In leggero rafforzamento le materie prime: il petrolio (WTI) sale dello 0,36%, a $ 85,81.
Gas naturale Usa a $ 1,697 (+ 0,12%).
Si avvicina nuovamente ai 2.400$ l’oro (2.390, + 0,24%).
Spread a 141 bp, con il BTP al 3,87% (+ 10bp).
Bund 2,43%.
Treasury a 4,60%.
Continua il rafforzamento del $, con €/$ a 1,061.
Bitcoin a $ 63.000, in ulteriore calo.
Ps: uno dei più grandi stabilimenti dell’Alfa Romeo si trova a Tychy, in Polonia. Lì è stata avviata la catena di montaggio di un mini-Suv, che avrebbe dovuto chiamarsi Milano. Se non che sono iniziate alcune “schermaglie” dopo che Adolfo Urso, Ministro delle Imprese e del Made in Italy, ha dichiarato che non è pensabile produrre in un Paese straniero un’automobile con il nome della Capitale economica italiana. E quindi si chiamerà Junior. Quindi avremo un marchio italiano che produce un’auto che avrà un nome straniero…