ad ognuno il suo “whatever it takes”.
Questo, in sintesi, è quanto si può dedurre dalle parole del Presidente americano Joe Biden, che ha dichiarato che “faremo tutto quello che serve per risolvere la situazione”, aggiungendo che “gli americani possono aver fiducia nella solidità del sistema”.
Gli urgenti provvedimenti adottati da FED, Tesoro e Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC) sono noti: garanzia di recuperare, da parte dei clienti della Silicon Valley Bank (e Signature Bank, l’altra banca andata in crisi di liquidità), tutte le somme depositate, anche oltre i $ 250.000 (il limite previsto dalla normativa USA, una sorta del nostro bail-in, il limite di € 103.000,00 imposto dalla BCE), linee di credito straordinarie per le banche che ne facessero richiesta, mettendo a garanzia i titoli governativi in portafoglio (al valore di “libro” e non di “mercato”, e quindi al valore di carico, mediamente ben più alto rispetto al valore attuale).
Molto si è detto, in questi giorni, sulle cause del default (in realtà una crisi di “liquidità” e non un’insolvenza vera e propria: in altre parole, se fosse stato possibile accedere alle linee di credito decise dalle autorità monetarie, come sopra indicato, è quasi certo che il problema, almeno in questi termini, non si sarebbe posto). Che si possono sintetizzare nella fortissima concentrazione (geografica e settoriale) delle attività della banca (il settore tecnologico Usa, con particolare riguarda alle start-up), sia per quanto riguarda i crediti (e quindi l’esposizione finanziaria) sia per quanto riguarda i depositi (e quindi la raccolta: nel momento in cui il settore, il più esposto all’aumento dei tassi della FED, ha avuto la necessità di iniziare a rientrare della liquidità, con richieste di prelevamenti sempre maggiori – non è un caso che i depositi, nel 2022, siano passati da $ 189,2 MD a $ 173,1 MD – la banca ha iniziato ad avere problemi, resi ancora più gravi per il fatto che per lungo tempo è rimasta vacante la posizione di Chief Risk Officer). Per non parlare dell’allentamento dei controlli voluto dall’amministrazione Trump, che ha innalzato da $ 50 MD a $ 250 MD le dimensioni di un Istituto di credito ritenuto “too big to fall”.
L’aumento dei tassi degli ultimi 18 mesi (negli USA) ha fatto il resto.
La grande preoccupazione dei mercati era (e rimane) il rischio “contagio”, cioè la propagazione del problema al sistema bancario Usa prima e a quello europeo dopo.
La maggior parte degli osservatori, peraltro, ritiene l’ipotesi piuttosto remota.
In primis, il pronto intervento delle autorità Usa dovrebbe aver messo “in sicurezza” il sistema bancario Usa. Vero che ieri molte piccole banche regionali (in Usa sono tantissime) hanno comunque sofferto, con le proprie quotazioni scese vertiginosamente, ma comunque il settore ha tenuto, come dimostrano anche le chiusure di borsa (solo il Dow Jones ha lasciato sul terreno pochi decimali, mentre il Nasdaq ha chiuso a + 0,79%).
Ancora più importante è la solidità del sistema bancario europeo, sottoposto a regole (e controlli) stringente da parte degli Organi di Vigilanza, a conferma che la crisi del 2008 non è passata invano.
In terzo luogo, non si ha evidenza che in Europa vi sia una Banca con una concentrazione di business così evidente: la distribuzione del business (come qualsiasi forma di diversificazione del business) è probabilmente la prima regola da osservare per evitare situazioni simili.
Eppure ieri le perdite maggiori si sono verificate in Europa (e ancor di più in Italia).
La spiegazione è piuttosto semplice: il settore bancario è quello che, negli ultimi mesi, è maggiormente cresciuto, grazie, appunto, al rialzo dei tassi. In altre parole, le banche hanno ripreso a fare il “loro mestiere”, che è quello di prestare denaro, guadagnando sul “differenziale” (spread) tra quanto riconoscono sui depositi e quanto fanno pagare sulle linee di credito. Essendo il listino italiano quello dove la componente bancaria-finanziaria è maggiore (circa il 35/40% del controvalore delle quotazioni borsistiche), la caduta di ieri ha avuto ripercussioni ben più forti da noi.
Questa mattina listini asiatici piuttosto pesanti.
A Tokyo il Nikkei perde oltre il 2,20%, mentre a Hong Kong l’Hang Seng arretra del 2,33%. Va meglio in Cina, dove Shanghai limita le perdite allo 0,72%.
Futures positivi a Wall Street, con rialzi intorno al mezzo punto.
Più volatile l’Europa, con Eurostoxx frazionalmente positivo (ma a Milano MIB negativo).
Petrolio in calo, come “da manuale” in queste situazioni: WTI a $ 74,09, in calo questa mattina dell’1,09%.
Risale il gas naturale Usa, a $ 2,638, + 1,07%.
Fiammata dell’oro, che si porta sopra i $ 1.900 (1.916).
Spread a 192 bp, una salita causata dalla “ricerca di sicurezza” da parte degli investitori, che si sono “buttati” sui “porti sicuri”: Bund quindi in forte crescita, con il rendimento del decennale che scende al 2,20%. E quindi contribuisce in maniera determinante alla diminuzione del rendimento del ns BTP (4.12%).
Treasury Usa (altro “porto sicuro”) al 3,57% (dal 3,70%).
€/$ a 1,0696.
Prende il volo il bitcoin, che questa mattina scambia a $ 24.517.
Ps: molti di noi ricordano, alle Olimpiadi di Città del Messico del 1968, un “pazzo” che saltava l’asticella del salto in alto al contrario (cioè di schiena). Mai, sui campi di atletica, si era vista una cosa del genere. Una cosa che avrebbe cambiato per sempre l’atletica. Quel “pazzo” si chiamava Dick Fosbury, che quell’anno vinse l’oro olimpico. Un pazzo che ieri se ne è andato all’età di 76 anni per un male incurabile. In atletica (almeno intesa come “attività sportiva”) non esistono i brevetti. Altrimenti quel pazzo sarebbe diventato un miliardarrio.