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Direttore: Alessandro Plateroti

Previsioni economiche del 14 giugno: Parigi val bene una messa.

Europa

Breve resoconto degli ultimi 10 giorni.

La settimana scorsa, dopo 9 mesi di immobilismo, la BCE riduce i tassi dello 0,25%, con Christine Lagarde che, però, parla di un “percorso accidentato” sulla strada della normalizzazione, non dando “certezze” per il futuro in termini di numero di tagli e, soprattutto, sulla loro entità: il classico “un colpo al cerchio un colpo alla botte” che da speranze alle “colombe” senza, dall’altra parte, irretire troppo i “falchi”. Peraltro il mercato non cambia molto il proprio punto di vista, che rimane orientato a ulteriori 2 tagli quest’anno (qualcuno si spinge a 3), per arrivare, entro la fine del prossimo, in area 2,25-2,50%.

Nel week-end è stato il momento delle elezioni europee. Seppur le previsioni dessero per certo un forte avanzamento delle forze di destra, la loro affermazione, in qualche Paese (sappiamo quali) è andata ben oltre, causando un proprio e vero choc, che ha allarmato non poco alcune cancellerie e, soprattutto, ha innestato un forte volatilità sui mercati,  alimentata ulteriormente dalla decisione francese di andare, in fretta e furia, a nuove elezioni: una mossa, quella del Presidente Macron, giudicata come una “lucida follia”, che diventerebbe, come dice qualche commentatore politico, un vero e proprio colpo di genio laddove portasse all’esito sperato (arginare la destra).

A preoccupare, infatti, al di là dell’aspetto puramente politico, gli operatori sarebbe il rischio di una deriva dei conti pubblici francese, che già oggi allarma analisti e UE, vista la sua progressione, con un deficit che continua a crescere (è il caso di ricordare che si sta parlando della seconda economia dell’area).

Si arriva, quindi, a questa settimana: a riunirsi, questa volta, è la FED che, senza alcun “coupe de foudre”, lascia le cose come stanno (“era già tutto previsto”, parafrasando il titolo di una celebre canzone di Riccardo Cocciante).

Decisione che rafforza l’idea che, per quest’anno, vedere 1 taglio dei tassi (se dovesse avvenire, fatto abbastanza probabile, c’è da star certi che avverrebbe entro ottobre – più probabilmente a settembre – consentendo a Biden di “incassare” il risultato) sarebbe già considerato un successo (non sono pochi coloro che cominciano pensare che se ne parlerà l’anno prossimo, cosa impensabile solo qualche mese fa).

Sono di ieri, invece, le notizie, in arrivo sempre da oltre-oceano, che la scorsa settimana i sussidi di disoccupazione hanno toccati massimi da agosto 2023, arrivando a 242.000, + 17.000 verso le stime, ferme a 225.000 (e ai 229.000 della settimana precedente). Da notare che le richieste “continuative” sono salite a 1.820.000, 30.000 in più rispetto alle 1.790.000 della settimana precedente.

Qualche segnale di rallentamento, pertanto, inizia ad esserci, a cui si accompagna anche una leggera flessione dei prezzi (comunque la più ampia dall’ottobre scorso): 2 fattori che aiutano la “speranza” di un ribasso, anche se, come detto, al momento sembra piuttosto prematuro parlarne.

Quindi, al netto delle vicende politiche, l’Europa (BCE) ha tagliato i tassi, gli USA (FED) no, e anche in chiave prospettica, l’Europa sembra in “pole position” in materia di nuove mosse.

La logica, quindi, avrebbe dovuto vedere i mercati europei muoversi al rialzo, mentre quelli statunitensi avrebbero dovuto accusare, per lo meno, una pausa, se non un rallentamento.

Invece stiamo assistendo Wall Street (in primis il Nasdaq, ma anche lo S&P 500) inanellare un record dopo l’altro (per lo S&P 500 il 4° in 4 sedute).

Un messaggio che più esplicito non potrebbe essere. Oramai, a qualunque latitudine, per quanto i “policy makers” continuino a gettare “acqua sul fuoco”, nel tentativo di smorzare gli entusiasmi, si è convinti che la battaglia all’inflazione sta per essere vinta (non conta se a settembre o a ottobre piuttosto che a dicembre) e che il taglio dei tassi sia, praticamente, un evento ineluttabile, che da qui a qualche mese, dovrebbe concretizzarsi “senza se e senza ma”. Il centro della scena, per quanto riguarda l’Europa, oggi è stato preso dalla politica. Probabile, quindi, che le 2-3 settimane che ci separano dal voto francese (30 giugno – 7 luglio) saranno scandite, più che dai dati macro, dal gioco delle alleanze tra partiti e dagli scenari che, di conseguenza, potrebbero verificarsi, e dagli impatti che avrebbero sull’e sulle future relazioni tra Stati e UE.

Con uno sguardo più al lungo termine, invece, non si prevedono (almeno stando ad alcune Banche d’Affari) particolari sconvolgimenti a livello globale, ma anche a livello più locale (area UE).

Quindi, anche in questa occasione, nervi saldi e “no-panic”.

Come detto, ieri nuova giornata di record per Wall Street, con il Nasdaq e lo S&P 500 sugli scudi (+ 0,57% e + 0,2%).

La settimana si conclude in modo favorevole per il Nikkei di Tokyo (+ 0,24% la giornata, + 0,32% la settimana).

Debole l’Hang Seng a Hong Kong (– 0,59% oggi, – 3,01% la settimana); sulla parità Shanghai (+ 0,04%, – 0,81% la settimana.

Ancora positivo il Kospi a Seul (+ 0,4%, + 1,5% la settimana).

Futures che sembra vogliano mettere dietro le spalle la giornata di ieri, con valori in moderato rialzo.

Petrolio in leggera ritirata questa mattina (WTI – 0,72%, $ 78,15).

Gas naturale Usa che torna sotto i $ 3 (2,936, – 0,98%).

Oro a $ 2.327, + 0,31%.

Spread che torna a “rivedere” quota 150 (147,8 bp questa mattina).

BTP di nuovo ad un passo dal 4%.

Bund 2,46%.

Treasury ancora giù, al 4,25% (4,31% il giorno precedente).

€/$ 1,0724, con il “biglietto verde” che ritorna a correre.

Chi non corre, almeno in questi giorni, è il bitcoin: questa mattina lo troviamo a $ 66.878.

Ps: uno dei tanti problemi che il nostro Paese si trova ad affrontare, in parte legato alla crisi demografica, è quello della fuga di cervelli. I giovani, infatti, guardano sempre con maggior interesse alle opportunità che giungono dall’estero e in numero sempre maggiore fanno scelte che non lasciano spazio a dubbi: sono ben 132.000 i laureati che hanno lasciato il nostro Paese negli ultimi 10 anni. Tra le varie motivazioni, oltre alla precarietà, spesso, delle offerte di lavoro, l’aspetto prettamente economico. Banalmente, chi accetta una proposta di lavoro estera, guadagna mediamente € 2.174 netti mensili. Cioè ben il 56,1% in più rispetto a € 1.393 netti mensili che guadagnerebbe in Italia. Non a caso 2 su 3 dichiarano di rifiutare offerte di lavoro che garantirebbero uno stipendio medio di € 1.250. Se l’Italia, sempre di più, è considerato un Paese per vecchi le ragioni sono più d’una (e soprattutto sono vere).

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ultimo aggiornamento: 14 Giugno 2024 8:52

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