La locuzione “ultimo miglio” trova origine nel mondo delle telecomunicazioni, intendendosi la parte finale dei cavi che connettono le centraline telefoniche agli utenti finali, vale a dire la parte di rete telefonica nota come rete di accesso.
Nel tempo, peraltro, il termine è diventato di uso comune, venendo spesso utilizzato per rappresentare “l’ultimo pezzo di strada” che separa dal raggiungimento di un obiettivo, qualunque sia il settore di riferimento.
Non è casuale che, per rimanere in argomenti economici, non di rado lo si usi quando di tocca il tema dell’inflazione, indicando la distanza che dobbiamo ancora percorrere perché si arrivi al target del 2% fissato dalle Banche Centrali di mezzo mondo.
Come quasi sempre accade, la fine di un tragitto tende a diventare (almeno nel percepito) più lento, se non più faticoso (come sa bene chi pratica una disciplina sportiva).
Durante il 2023, con un’accelerazione nella seconda parte dell’anno, l’inflazione ha subito un’accelerazione al ribasso che l’ha portata, piuttosto rapidamente, ai livelli attuali. Da qualche mese, però, anche per i nuovi eventi esogeni già ampiamenti noti e trattati, è come se ci trovassimo a correre controvento: si procede senz’altro verso il traguardo, ma la fatica si sente molto di più e la velocità è molto ridotta.
Ne abbiamo avuto conferma nella giornata di ieri nel momento in cui sono stati resi noti i dati sull’inflazione americana. Tutti gli operatori erano “sintonizzati” su una riduzione al 2,9% (inflazione CPI, quella relativa ai prezzi al consumo rilevati nei soli centri urbani). Vedere che ci si era fermati, invece, al 3,1% ha fatto scattare la delusione, facendo passare in secondo piano il fatto che, comunque, la tendenza al ribasso continua in modo piuttosto evidente (a dicembre si era al 3,4%). L’indice core, quello che rileva i prezzi al netto delle componenti energetiche ed alimentari, ritenute più volatili, è rimasto invece fermo al 3,9%. Ad una lettura più attenta, peraltro, il dato non dovrebbe sorprendere più di tanto: gli USA hanno un deficit di bilancio che si aggira intorno all’8% (noi siamo al 5,3%, percentuale che ci espone, oltre alle critiche dei nostri partner europei, al rischio di nuove manovre correttive), che si traduce in elevate spese governative, grazie ad una politica fiscale molto espansiva. Inoltre, negli ultimi mesi le pressioni salariali sono diventate sempre più forti, favorendo i consumi.
La lettura che è stata data dai mercati è, di conseguenza, piuttosto semplice: se l’inflazione rimane su questi livelli, anzi con un rischio, nell’immediato, di un ritocco verso l’alto, è impossibile che la FED proceda a “tagliare” (i tassi). Se a dicembre si riteneva che nel corso del 2024 i tagli sarebbero stati almeno 6, per un totale di 150 bp, oggi siamo alla metà. Non solo: se prima si dava per probabile un inizio a maggio (con circa il 60% di probabilità), subito dopo la diffusione dei dati le probabilità sono scese al 30%, spostando a giugno l’inizio del ribasso (almeno per il 70%, ma prima erano al 93%). Ciò significa che durante l’anno i tassi Usa dovrebbero scendere non più dell’1,50% ma solo dello 0,75%, scendendo al 4,50-4,75%.
Immediata la risposta dei mercati, che si sono allineati in tempo reale alle nuove previsioni, con un repricing dei rendimenti obbligazionari e, conseguentemente, delle quotazioni azionarie. A “tirare la volta” i prezzi delle obbligazioni, bersagliate dalle vendite, con i rendimenti schizzati verso l’alto (i movimenti sono sempre opposti). Il ragionamento degli operatori è piuttosto elementare: se prima i prezzi scontavano riduzioni in tempi brevi (o, per lo meno, più brevi), oggi la resilienza dei prezzi (“sticky”, appiccicosa, per dirla all’americana) fa si che la discesa dei tassi sarà più lenta, con i rendimenti obbligazionari destinati a rimanere più alti per un periodo più lungo. Insomma, non c’è più fretta per “assicurarsi” certi rendimenti, cosa che, portando all’acquisto dei titoli obbligazionari, ne faceva salire il prezzo.
Allo stesso modo, gli operatori, come dimostrano i cali di ieri a Wall Street, hanno preso la palla al balzo per “portare a casa” i guadagni di questa prima parte dell’anno. Peraltro, come spesse accade in situazioni simili, in molti hanno prestato più attenzione al fatto che le valutazioni di molti titoli appaiono piuttosto care (l’indice S&P “prezza” 20 volte gli utili attesi per il 2024, comunque in crescita dell’11% rispetto all’anno precedente). Un dato che conferma come l’economia statunitense si trovi in buona, se non in ottima, salute, con un mercato del lavoro sempre molto ben intonato. Tutti elementi che invitano la FED alla cautela, evitando gli errori commessi negli anni 70, quando, dopo una apparente pausa dei prezzi, decise di procedere ad un taglio robusto dei tassi, per poi ritrovarsi in situazioni ancora più complicate.
Una mossa che forse non piacerà troppo a Biden, al quale potrebbe non bastare il buono stato dell’economia, alle prese come è di critiche preoccupate per il suo stato psico-fisico, oltre che all’azione martellante di Trump, senza rivale alcuno all’interno del Partito Repubblicano.
Prende fiato, questa mattina, a Tokyo, il Nikkei, dopo il fortissimo rimbalzo (+ 2,89%): oggi le quotazioni sono in calo dello 0,69%. Un ribasso che non disturba più di tanto, anzi, è quasi salutare. Oramai l’indice giapponese è quasi ai massimi storici, distanziato di appenda poco più del 2% (38.010 punti vso 38.957 toccati nel lontanissimo 1989.
Hong Kong riapre con un rialzo dell’Hang Seng di circa lo 0,93%.
Ancora chiusa Shanghai. In ribasso, a Seul, il Kospi (- 0,5%) e, a Sidney, lo S&P ASX200.
Positivi i futures Usa, dopo i pesanti ribassi di ieri a Wall Street (Nasdaq – 1,6%, Dow Jones – 1,35%, S&P 500 – 1,4%).
Cercano il recupero anche i futures europei, a ruota di quelli americani.
Continua la sua marcia al rialzo il petrolio, con il WTI a $ 78,14.
Sempre più giù, invece, il gas naturale Usa, oramai a $ 1,674.
Deciso ribasso per l’oro, che è ridisceso a $ 2.000 (2.004).
Poco mosso lo spread, a 153,9 bp.
Il rialzo del rendimento del bund tedesco (2,39%), ha portato verso l’alto anche i nostri BTP, tornato vicino al 4% (3,93%).
Ai massimi da dicembre il treasury Usa (4,31%), sotto l’ondata di vendite seguita alla pubblicazione dei dati sull’inflazione Usa.
In forte rafforzamento (per effetto sempre dell’inflazione “resistente”) il $, a 1,07 vso € (i tassi alti favoriscono la valuta americana a scapito dell’€).
“Resiste” il bitcoin, che rimane aggrappato ai $ 50.000 (49.824).
Grazie per l’attenzione.
Ps: ben sappiamo perché si ricorda il 14 febbraio. Ma non è solo una questione d’amore. In questo giorno, nel 1929, a Chicago, gli uomini di Al Capone compirono la famosa strage, assassinando 7 persone della banda rivale. Ma c’è anche un’altra, triste, ricorrenza: 20 anni fa, in questo giorno, moriva Marco Pantani, che 5 anni prima aveva dovuto interrompere le gare per la famosa inchiesta sul doping. 20 anni in cui il mistero non è stato ancora risolto, né mai, forse, lo sarà.