Il fallimento (anche se forse la definizione è impropria, visto il rapido succedersi dei fatti) della Silicon Valley Bank ha fatto emergere, nel week end, le preoccupazione di una nuova crisi bancaria a distanza di 15 anni dal crack della Lehman Brothers che portò ad una delle più gravi crisi finanziarie a livello globale che si ricordino, con pesantissimi ricadute sull’economia.
Ma le situazioni sembrano un po’ diverse, per molteplici fattori.
In primis, in quel caso si parlava di una banca sistemica: un Istituto, cioè, che per storia, dimensioni e presenza sui mercati, aveva diramazioni e attività in tutti i continenti, con milioni di clienti, non solo privati, contando su rapporti con le più grandi aziende e Istituzioni. In questo caso parliamo di una Banca che, per quanto importante (pare fosse la 17° negli Stati Uniti), è nata nel 1983 quasi per gioco (i fondatori erano amici che si riunivano settimanalmente per giocare a poker e, tra un partita e l’altra, parlavano delle loro esperienze imprenditoriali, finchè è nata l’idea di creare una “propria” banca) e, per quanto sia cresciuta, non ha raggiunto dimensioni da banca “sistemica”, continuando ad essere ritenuta per lo più una banca locale, come lo stesso nome evoca, con una presenza modesta non solo all’estero, ma anche in altri Stati americani.
In secondo luogo, nel caso di Lehman la crisi venne causato dall’altissima esposizione sui mutui (spesso erogati per un importo superiore anche al 100% del valoredel bene finanziato), che, una volta erogati, venivano “impacchettati” e venduti ad istituzioni finanziarie sotto forma si strumenti finanziari. Nel momenti in cui molti beneficiari del finanziamento non sono stati più in grado di far fronte al proprio impegno (non dimentichiamoci che negli Usa un dipendente può essere lasciato a casa in 15 giorni), il sistema è “crollato”: il valore degli immobili è fortemente diminuito, per cui gli Istituiti (che non sono immobiliaristi…) si sono trovati in mano asset con un valore ben inferiore a quanto avevano finanziato. Senza contare che chi aveva comprato i “veicoli finanziari” costituiti dai mutui ha visto il valore dello strumento su cui aveva investito diminuire in modo verticale. In pratica, l’economia e la finanza si poggiavano su un “castello di carta”.
Nel caso della Silicon Valley Bank si è verificata una cosa un po’ diversa.
La banca negli ultimi anni era fortemente sviluppata: dallo scoppio della pandemia la propria raccolta era cresciuta del 200%, contro una media del + 50% del settore, in concomitanza della fortissima crescita del settore tech, di fatto il mercato di riferimento per la banca californiana.
Altro aspetto che non va dimenticato è la profonda differenza in termine di regole e vigilanza a cui sono sottoposti gli Istituti di credito americani ed europei, complice anche l’Amministrazione Trump, che nel 2018 ha innalzato da $ 50MD a 250MD il tetto per le banche considerate troppo grandi per poter fallire. In Europa, l’avvento di Basilea 3 ha “costretto” gli Istituti creditizi a regole molto stringenti: per esempio, non possono investire gran parte di quanto raccolgono in investimenti a lungo termine, di solito più remunerativi, obbligandole a mantenere una liquidità abbondante (patrimonio di garanzia), a costo di rendere poco remunerativa la loro attività (come in effetti è successo negli ultimi anni, almeno sino all’anno scorso). Ben diversa la situazione negli USA, come dimostra la vicenda della Silicon Bank. Vista la forte crescita della raccolta, hanno infatti investito gran parte della liquidità in strumenti a lungo termine (in prevalenza Treasuty Usa). Con il rigore monetario inaugurato, oltre oceano, quasi 1 anno e mezzo fa, il rialzo dei tassi (oggi al 4,50-4,75%) ha “depresso” le quotazioni di quei titoli (il rendimento è inversamente proporzionale al loro valore). Di contro, per lo stesso motivo, molte aziende hanno iniziato a richiedere indietro i propri depositi, anziché utilizzare le linee di credito, i cui costi, nel frattempo, si erano moltiplicati. Senza contare il fatto che, alla fine del 2022, l’87,5% delle linee di credito concesse erano senza garanzia….
La settimana scorsa la banca si è trovata quindi costretta a vendere asset per circa $ 21MD, per far fronte alle richieste di liquidità: peccato che il valore, nel frattempo, a causa del crollo dei prezzi, si fosse ridotto di quasi il 10%, con un perdita, in conto capitale, di circa $ 2MD. Per far fronte al quale era già stata avviata la procedura per un aumento di capitale di circa $ 2.5MD, gestito da Goldman Sachs. Ma il mercato ha “fiutato” il rischio, con la conseguenza che venerdì i clienti della banca hanno richiesto prelevamenti per oltre $ 42MD, un importo che ha messo in ginocchio la banca, inducendo la FED ad intervenire, chiudendo provvisoriamente l’attività.
La fortissima concentrazione ha fatto il resto: essendo il settore più coinvolto quello della tecnologia, già fortemente penalizzato dall’aumento del costo del denaro (visto l’alto livello di investimenti richiesti, con una redditività quasi inesistente, essendo il numero di start-up elevatissimo), se si confermasse l’impossibilità di prelevare la liquidità depositata, si potrebbero aprire scenari piuttosto difficili da gestire.
Questa mattina, peraltro, giungono importanti (e positivi) segnali dalla FED.
Innanzitutto, in accordo con il Ministero del Tesoro Usa, oltre che con la Federal Deposit Insurance Corporation, è stato tolta la regola che limitava la garanzia dei depositi a $ 250.000. In altre parole, tutti i clienti potranno ritirare tutta la liquidità che hanno depositato presso la Banca: il caso più clamoroso è quello della Circle, società operante nel settore delle criptovalute, che aveva depositi presso la banca californiana per oltre $ 3,3MD. Non dubbio che la sua insolvenza avrebbe trascinato in una nuova crisi tutto il settore delle criptovalute.
Inoltre, sempre la FED avrebbe messo a disposizione di tutte le banche che dovessero trovarsi in crisi di liquidità una linea di credito speciale. La prima a beneficiarne è la First Republic Bank, a cui è stata fornita, insieme a JP. Morgan, una linea di credito di $ 70 MD. Senza contare il fatto che le autorità hanno preso il controllo della Signature Bank, altro istituto fortemente esposto con il mondo cripto.
Alle 11.30 ore di Washington comunque la FED si riunirà per valutare la situazione e capire il da farsi.
Questa sorta di “cordone sanitario”, oltre che, come detto, il fatto di trovarsi di fronte ad una crisi che sembra locale più che sistemica, pare stia dando maggior serenità ai mercati.
In buon rialzo Shanghai (+ 1,20%), grazie anche alla conferma degli obiettivi di crescita della Cina (5%).
A Hong Kong l’Hang Seng cresce di oltre il 2%.
Al palo invece a Tokyo il Nikkei, che arretra dell’1,11%.
Futures in netta ripresa oltreoceano (Nasdaq + 1,62%, Dow Jones + 1%, S&P 500 + 1,50%). Più cauta l’Europa, con l’Eurostoxx in frazionale rialzo (+ 0,14%).
Tutte in ripresa le materie prime: il petrolio (WTI) sale dello 0,48%, a $ 77,12.
Gas naturale Usa + 2,14%, a $ 2,486.
Si riavvicina ai 1.900 $ l’oro (1.881, + 0,68%).
Spread a 180,7 bp, per un BTP intorno al 4,35-4,40%.
Treasury in rafforzamento, con un rendimento che scende al 3,70%. In discesa anche il biennale, dopo l’impennata della settimana scorsa (4,42%. – 15 bp).
L’ipotesi che la FED possa rallentare il previsto nuovo aumento dei tassi per non creare “nuovi problemi” al sistema bancario USA sta indebolendo il $: il biglietto verde tratta infatti questa mattina a 1,0726 vso €.
in netta ripresa il bitcoin, che si riporta a $ 22.547 (+ 1,51%), dopo il rafforzamento di ieri.
Ps: da sabato si aggiunge una nuova leggenda nello sci. Mikaela Shiffrin, la campionessa american, ha infatti, nell’arco di 24 ore, prima raggiunto e poi superato, proprio in Svezia, Ingmar Stenmark, a lungo detentore del maggior numero vittorie (86) nello sci alpino. E dire che la sciatrice USA ha solo 27 anni: e quindi di certo non è finita qui…