Oramai tutti abbiamo imparato che l’obiettivo della politica monetaria messa in atto dalle Banche Centrali di mezzo mondo è il raggiungimento dell’inflazione target, fissato al 2%. Un numero, si potrebbe pensare, non casuale, ma frutto di analisi e studi in base ai quali l’andamento dell’economia e la qualità della vita delle persone, su questi livelli, ne traggono i benefici migliori. Ma così non è, essendo, in realtà, il risultato di una decisione quasi “estemporanea” assunta dal Parlamento della Nuova Zelanda verso la fine di dicembre del 1989 e da quel momento adottata un po’ ovunque. Molti, in questi mesi, hanno pensato, probabilmente in considerazione della difficoltà a raggiungere l’obiettivo, che un così accentuato rigore nel suo mantenimento fosse non così determinante: meglio sarebbe stato, a loro parere, lasciare “libera” l’inflazione di fluttuare, alleggerendo, di contro, il rigore monetario.
A guardare quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, dove la corsa dei prezzi era partita in anticipo rispetto all’Europa, sembra che la “perseveranza” stia pagando.
I dati pubblicati ieri ci dicono che oramai un solo punto ci separa (o meglio, “li” separa) dal sospirato target: rispetto all’atteso 3,1% (4% a maggio), l’inflazione si è fermata al 3%. Meglio, quindi, del previsto, anche se l’inflazione core ci dice che c’è ancora da fare, essendo la sua discesa più lenta (rispetto al 5,3% di maggio siamo al 4,8% di fine giugno), anche se va detto che il rialzo è stato, mese su mese, “solo” dello 0,2% (negli ultimi 6 mesi non era mai stato, su base mensile, inferiore allo 0,4%).
Siamo tornati, pertanto, ai livelli del marzo 2021. A detta della FED, però, non sufficiente a giustificare un nuovo stop, dopo quello di giugno, alla progressione dei tassi: le probabilità che la Banca Centrale americana a fine luglio proceda ad un nuovo rialzo sono pari al 92%, numero che riduce al 13% (era al 23% solo fino a un paio di giorni fa) riferito ad un eventuale ritocco a settembre. Dal 3 al 2% il passo può sembrare breve: ma come spesso succede, “l’ultimo miglio” può essere il più duro da raggiungere (pensiamo ai record nell’atletica leggera: migliorare di 1 decimo nella velocità o di 1 cm nei salti a volte comporta anni di attesa).
Da qui la cautela della FED: il Presidente Powell continua a ripetere che “c’è ancora del lavoro da fare” e che ulteriori aumenti da qui a fine anno sono ancora possibili. Quasi un tentativo di smorzare gli entusiasmi degli operatori, che oramai vedono il “fine corsa”. Se così fosse, per quanto il rialzo sia stato violento e accelerato (il maggiore da 40 anni a questa parte), sarebbe comunque poca cosa ripensando a quanto successo verso la fine degli anni 70, quando i tassi arrivarono a superare il 10%, con un’economia che impiegò anni per tornare a crescere e un livello dei prezzi a lungo lontani dal punto di equilibrio.
La speranza, quindi, è che con luglio si arrivi al famoso “picco”, per poi, con il 2024, iniziare ad allentare la presa.
A guardare la giornata di ieri (e l’inizio di quella odierna) si direbbe che la stragrande maggioranza degli operatori è convinta che il peggio sia passato.
Il dato sull’inflazione Usa ha portato ad acquisti diffusi sul listino americano, con il Nasdaq che ha chiuso a + 1,24%, mentre il Dow si è fermato a + 0,25%.
Questa mattina mercati del Pacifico quasi euforici: a Tokyo il Nikkei sale dell’1,49%, mentre Shanghai fa registrare + 1,18%.
Ancora meglio fa, a Hong Kong, l’Hang Seng, in crescita del 2,40%.
Futures positivi ovunque, con rialzi tra lo 0,22 e lo 0,40%.
Prosegue il rafforzamento del petrolio, con il WTI che di forza supera i $ 75, portandosi sin quasi ai 76 (75,96).
Gas naturale Usa a $ 2,658 (+ 0,87%).
Bene anche l’oro, $ 1.963.
In restringimento ovunque gli spread, con i bond che sono tornati nel mirino degli investitori e i prezzi in salita.
Spread BTP/Bund a 170 bp (dai 175 del giorno precedente), con il BTP che dal 4,42% di martedì passa al 4,25%.
Bund al 2,55%, mentre il treasury Usa dal 3,96% scende al 3,85%.
Soffre il $, che si porta a 1,1141 verso €.
in discesa il bitcoin, ad un passo dei $ 30.000 (30.324).
Ps: non di solo “PIL” vive un Paese. O meglio, esistono anche altri indicatori per valutarne la qualità della vita ed il benessere. Uno di questi è l’istruzione. Un capitolo “nero” per il nostro Paese, almeno stando ai risultati dei test Invalsi degli studenti della scuola dell’obbligo. In italiano, circa la metà degli studenti delle superiori (il 49%) è uscito senza aver raggiunto il livello della sufficienza (nel 2019 era del 36%). Quasi peggio è andata in matematica, con il risultato in assoluta parità (50%). Ma i problemi nascono già alle elementari, con un bambino su 3 che non ha le competenze adeguate. Per non parlare della comprensione della lingua inglese, con percentuali di apprendimento tra il 40 e il 50%, ben lontani dalla media europea. Ma l’aspetto che forse più preoccupa è l’ennesima conferma dell’enorme differenza tra nord e sud: un’ulteriore fotografia di un Paese diviso a metà. Con tutto quello che ne può conseguire.
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