La Siria è un Paese di circa 185.000 kmq: quindi circa 3/5 dell’Italia (che si estende per circa 300.000 kmq). Ha una popolazione di circa 23 ML di persone, con milioni di profughi in molti Paesi del mondo.
Dopo oltre 13 anni di guerra civile, il suo PIL non arriva a $ 9 MD: tanto per fare un raffronto, l’area metropolitana di Milano (che comprende Monza e Brianza) dovrebbe, quest’anno, superare i $ 367 MD. Come dire che la Siria produce, nella sua totalità, la ricchezza espressa da Monza e qualche comune limitrofo.
Il reddito procapite di un cittadino siriano è pari a circa $ 421 annui, e l’inflazione si aggira intorno al 93%.
Numeri spaventosi, che fanno di quel Paese uno dei più poveri al mondo. Inserito, per di più, in un’area geografica, da un punto di vista geo-politico, dove le tensioni sono all’ordine del giorno e fanno parte della storia.
Ovvio che, in una situazione simile, un regime come quello che ha “governato” il Paese non potesse continuare: anzi, stupisce che sia durato sino ai nostri giorni.
Come successo per altri regimi (vedi la Libia qualche anno fa, con il rovesciamento di Gheddafi), il rischio è che il Paese si ritrovi in una instabilità politica in cui gli scontri fra le opposte fazioni rendano non semplice la ricostruzione, e che possa diventare “terra di conquista”.
La Siria, in sé, evidentemente rappresenta, alla luce dei tragici numeri sopra riportati, un Paese “ai margini”. Quello che potrebbe cambiare le “carte in tavola” è il contesto in cui è inserita: non a caso, proprio nelle ultime 48 ore Israele ha ripetutamente attaccato il Paese, con ben, si calcola, 480 raid. Come dire che la guerra si è spostata dalla Palestina verso quei territori, passando dal Libano (altro Paese oramai in ginocchio).
Eppure il mondo non fa una piega. Né, tanto meno, la fanno i mercati finanziari, confermando, in questa fase, come la geo-politica sia confinata nella “marginalità”.
Ieri i listini americani hanno ritoccato, e non di poco, i loro record.
Il Nasdaq, per esempio, che ha chiuso con un rialzo dell’1,85%, ha, per la prima volta, superato i 20.000 punti: sono cioè bastati 1.645 giorni (o, in altre parole, 4 anni e mezzo) per “raddoppiare” il valore dell’indice, passando dai 10.000 punti agli attuali 20.000. Formidabile la progressione degli ultimi mesi: erano 17.000 a fine maggio, 18.000 ai primi di luglio, 19.000 appena 20 giorni fa (22 novembre).
L’ulteriore balzo è partito dopo i dati sull’inflazione americana. Inflazione che, va detto, non solo non è scesa, ma è leggermente cresciuta (dal 2,6% di ottobre siamo passati al 2,7% di fine novembre, e a settembre era al 2,5%). Ma i mercati si aspettavano dati ancora peggiori. Ecco, quindi, che oramai si da per scontato che il prossimo 18 dicembre (oggi è atteso il “verdetto” della BCE, che dovrebbe confermare un nuovo taglio dello 0,25%) la FED metterà nuovamente mano alle “forbici”, abbassando di un altro 0,25% i tassi americani. Almeno questo è quello che pensa il 96% degli analisti dopo la pubblicazione dei dati di ieri (fino a quel momento le probabilità erano date all’85%).
L’inflazione, pertanto, seppur in maniera non lineare, anche negli USA sembra “alle corde”: un buon motivo per “puntare” ancora su un mercato che, per quanto abbia corso (dall’inizio dell’anno S&P 500 + 28,28%, Nasdaq 100 + 31,55%, Nasdaq composite + 35,68%) non da alcun segno di stanchezza. Anzi, sembra credere fermamente nelle politiche trumpiane e nel “mantra” del tycoon che il 20 gennaio tornerà a varcare la Casa Bianca.
Inflazione sotto controllo, geo-politica in “freezer”, politiche monetarie accomodanti, economia americana in salute più che buona, Europa che cerca di “venir fuori” dai propri guai, Cina anch’essa impegnata a ridare energia alla propria crescita (e instillare fiducia alla popolazione, dopo lo shock immobiliare e la caduta verticale dei consumi interni): a vedere il bicchiere “mezzo pieno”, tantissime possono essere le ragioni per continuare ad avere un approccio “risk on”. Vero anche, però, che alcune quotazioni cominciano ad essere “care”, per cui ora più che mai “maneggiare con cura” diventa fondamentale.
I record americani fanno da “traino” agli indici del Pacifico, per una volta tutti allineati.
Il Nikkei a Tokyo sale dell’1,21%.
Shanghai procede, per il momento, con un + 0,85%.
A Hong Kong l’Hang Seng sale dell’1,59%.
Seul sembra essersi lasciata alle spalle la crisi politica conseguente al tentativo di introdurre la Legge marziale da parte del Presidente Yoon (per il quale sabato ci sarà un nuovo voto sulla richiesta di impeachment), grazie anche alla “iniezione”, da parte della Banca Centrale, di oltre $ 9,8 MD di liquidità: il Kospi oggi sale di nuovo dell’1,2%.
Taiex Taiwan + 0,63%.
Futures per il momento leggermente deboli su tutti i mercati (– 0,10/0,15%).
Il petrolio riprende a salire, con il WTI che questa mattina “rompe” di nuovo il muro dei $ 70 (70,44, + 0,11%).
Gas naturale Usa $ 3,37, – 0,41%.
Oro di nuovo sulla “breccia”, a $ 2.752 (anche se questa mattina è in leggero calo, – 0,24%).
Spread a 107,1 bp.
BTp sempre attorno al 3,20%.
Bund 2,13%.
Rendimento Treasury in leggero rialzo (4,28%).
€/$ poco mosso (1,052) in attesa delle mosse della BCE.
Bitcoin a $ 101.410.
Ps: la “prima volta” del Nasdaq oltre i 20.000 punti si “porta dietro” altre “prime volte”. Una ha del clamoroso. E, tanto pe cambiare, riguarda il “nostro” idolo. Sempre lui, il “nostro” Elon. Grazie alla corsa (in borsa, non in pista…) della sua Tesla (ieri ha toccato i $ 424,77), il suo patrimonio personale ha superato i $ 400 MD. Ma non è solo merito di Tesla: si calcola che la sua Space X, la società aerospaziale che dovrebbe portarci tutti su Marte in tempi non lontani, pur non essendo quotata, abbia raggiunto oramai una quotazione di $ 350 MD. E poi c’è sempre, per quanto in sospeso, il suo emolumento di $ 56 MD, già deliberato dal CdA di Tesla ma, per ora, bloccato, da un giudice americano…